Una cupa onda nera

Le vere ragioni della clamorosa sconfitta del Pd e i pericoli sottovalutati della vittoria della destra postfascista rappresentata da Giorgia Meloni.

Renato Fioretti

Da sempre “a sinistra”, anche nel Psi, il mio partito di riferimento, non ho mai votato né aderito al Pd – nemmeno quando, nel corso della mia lunga militanza di dirigente della Cgil, sarebbe stato “comodo” farlo – e sono sicuro di non avere commesso un errore!

Non l’ho mai fatto perché consideravo la nuova formazione, nata dalle ceneri dell’ex Pci e dell’ex Dc, l’ennesimo e definitivo atto di un work in progress che avrebbe finito con il rappresentare, da un lato, la realizzazione di un antico progetto politico – personalmente non condiviso, ma non per questo, meno legittimo – e, dall’altro, una plateale smentita!

Ciò perché, a mio parere, nel 2007, con la costituzione del Pd, si realizzava (postuma) la “brutta copia” di quel disegno politico cui Enrico Berlinguer aveva dedicato grande parte delle sue energie.

È, infatti, a tutti noto che, alle numerose perplessità nei confronti delle socialdemocrazie nord europee, Berlinguer aggiungeva forti remore rispetto alla concreta ipotesi di una reale “alternativa di sinistra”(1), mentre era dichiaratamente favorevole a un’alleanza tra le due forze politiche che, a sua parere, erano le uniche a poter contare su di una “base popolare” e, quindi, (quasi naturalmente) destinate a governare insieme il Paese: il Pci e la Dc.

Purtroppo, però, la prematura scomparsa – che lasciava un vuoto incolmabile nel panorama politico nazionale ed internazionale – non gli consentì di vedere realizzato un obiettivo che restò affidato a quanti gli succedettero nel ruolo.

A questo riguardo, non è mia intenzione ripercorrere le tappe che, all’epoca, caratterizzarono la vana ricerca di un suo degno erede. Resta il fatto che, relativamente alla “gestione” della sua eredità politica, si realizzò, in effetti, una situazione simile a quella creata nel caso in cui la partitura di una grande opera lirica venga – inopinatamente – affidata a un’interrotta serie di direttori d’orchestra ipovedenti!

Vero è che, all’epoca, non pochi osservatori indipendenti e rappresentanti di altre forze politiche parlarono di una sorta di “fusione a freddo”, per sottintendere l’esistenza di una presunta contraddizione esistente in una nuova formazione politica erede di così divergenti riferimenti ideologici.

Evidentemente, poco avevano compreso – costoro – quanto fosse ormai radicato, tra gli ex Pds ed ex Ds, il convincimento di avere quasi concluso il lungo percorso di “assestamento al centro”.

Assestamento attraverso la conquista di quel “voto di centro” che, secondo il parere dei più esperti analisti e politologi dell’epoca, rappresentava il fattore determinante per l’acquisizione del consenso ed il successo elettorale di qualsiasi forza politica che aspirasse a un duraturo governo del Paese.

Cominciava quindi a realizzarsi – a partire dall’individuazione del primo Segretario Pd nella persona di quel Walter Veltroni, che ritenne subito opportuno precisare di non essere mai stato comunista e, mentendo, di non essere mai stato in un paese della vecchia Urss – la definitiva fase di democristianizzazione degli eredi del Pci, Pds e Ds.

Il Pd, dunque, quale sostanziale “Dc del terzo millennio”; a plateale smentita di un sin troppo ottimistico auspicio di Luigi Pintor, risalente al lontano 1983! (2)

Risale, invece, al 2011 “Moriremo democristiani”, un libro di Paolo Casotto, ‘militante di base’ – come amava definirsi – che, sotto forma di racconto autobiografico, attraverso un rapporto epistolare con diversi interlocutori, imputava a Enrico Berlinguer e a tutti gli altri dirigenti che gli erano succeduti, di non aver compreso il messaggio di modernizzazione richiesto alla sinistra.

In questo senso, c’è tanta parte degli iscritti e dei militanti ex Pd che ritiene sia stata esiziale, per l’attuale stato del partito, la gestione di Matteo Renzi, Segretario dal dicembre 2013 al febbraio 2017 e, contemporaneamente, Premier dal febbraio 2014 al dicembre 2016.

In particolare, alla gestione del giovane e sin troppo intraprendente Segretario, autoproclamatosi quale “rottamatore” di una classe dirigente rappresentata ancora da “vecchi tromboni” (3) non in sintonia con la “modernizzazione” del Paese, solo oggi vengono addebitate scelte politiche che – in qualità di Premier e Segretario Pd – avrebbero determinato il sostanziale <scollamento> tra il Pd ed i suoi maggiori referenti sociali: dai lavoratori, ai pensionati e fino alla c.d. classe media.

E, in effetti, di scelte poco condivisibili – se non da parte di Confindustria e di tutto  l’establishment nazionale ed internazionale – Renzi, nel corso del suo mandato da Premier, ne operò non poche.

Basti ricordare, a titolo di esempio, quelle relative alla legislazione del lavoro.

Dal definitivo “svuotamento” dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, alla sostanziale liberalizzazione delle “causali” ancora previste per i contratti di lavoro a termine (4), passando attraverso la sostituzione del vecchio contratto di lavoro a tempo indeterminato con quello “a tutele crescenti” che, di crescente ha solo l’entità del risarcimento economico, piuttosto che la garanzia del posto di lavoro! (5)

Scelta quindi autolesionista, ancora per le sorti del partito, il Renzi bis, quale Segretario del Pd dal maggio 2017 al marzo 2018.

A onore del vero c’è, però, anche da rilevare che già la gestione Bersani aveva prodotto non poche incomprensioni e, direi, insanabili lacerazioni tra il Pd e i suoi originali riferimenti sociali.

Basti pensare alle conseguenze, tutte negative, dell’incondizionato appoggio al governo Monti e del voto favorevole alla famigerata legge Fornero; che tanti “lutti” avrebbe prodotto ai lavoratori e ai (mancati) pensionati italiani.

Richiamare, dunque, alla vigilia dell’appuntamento elettorale appena conclusosi, ex militanti, simpatizzanti e, comunque, elettori anche di diversa opinione politica, alla necessità di esprimere un “voto utile”, a favore del Pd, per arginare l’avanzata del centro/destra in Italia – in particolare di quella destra estrema che alcuni ritengono cosa diversa dal fascismo di tragica memoria, ma pur sempre, per troppe assonanze, ad esso riconducibile – si è dimostrato, in definitiva, un inutile sforzo.

Questa volta, l’invito al voto utile che, sistematicamente rivolto in precedenti occasioni – sia di carattere nazionale che regionale – aveva già indotto milioni di elettori a seguire l’antico esempio di Indro Montanelli (6), non ha svolto la sua funzione e il Pd, del sempre democristiano Enrico Letta, si trova a dover fronteggiare una sonora sconfitta rispetto a una destra che, agevolata dalla perdurante disaffezione che gli italiani continuano a mostrare nei confronti degli appuntamenti elettorali, raccoglie il maggior numero di consensi; passando dal misero 4,3 per cento del 2018 al 26,1 del 2022!

Una clamorosa sconfitta, quella del Pd, che non può essere addebitata, neanche in minima parte – come, invece, pretenderebbe Enrico Letta – alla caduta del governo Draghi, alias “la grande ammucchiata”, per una mancata “fiducia” da parte del nuovo M5S di Giuseppe Conte.

È quindi evidente, a mio parere, che la sconfitta dell’ultimo (pseudo) centrosinistra e il successo della destra non siano da imputare a coloro che, con coerenza ed onestà intellettuale, hanno ignorato l’invito (e il ricatto) al voto utile e preferito formazioni realmente di sinistra – destinate, purtroppo, a non marcare (quasi) alcuna presenza nel nuovo Parlamento – o la diversa qualità dell’opposizione garantita da Giuseppe Conte, ma unicamente alle scellerate scelte politiche di un Pd che ha sistematicamente ignorato le  esigenze e le istanze provenienti da una “base sociale” ormai priva di qualsiasi riferimento politico.

Probabilmente, come in molti sostengono, l’estrema destra rappresentata dalla Meloni non vestirà di nero e (forse) non condurrà più attacchi alle sedi sindacali o di altri partiti – così come tragicamente li vissero i nostri nonni e i nostri genitori – ma si richiama e resta, pur sempre (a partire da troppi simboli) una destra vetero/fascista, post/fascista o, addirittura, come sostiene Enzo Traverso (7), tendente a radicalizzarsi e trasformare il post/fascismo in neo/fascismo.

Con tutto ciò che ne consegue: una matrice nazionalista, razzista, antifemminista, omofoba, xenofoba e l’islamofobia quale surrogato dell’antisemitismo.

Se poi, le elites economiche, nazionali ed europee, dovessero scegliere le destre estreme quali interlocutrici privilegiate (8), avremmo veramente da preoccuparci.

Per quanto ci riguarda più da vicino, ritengo che in Italia sia abbastanza diffuso un fatto alquanto singolare. Si tratta, in sintesi, di un problema opposto a quello di non riconoscere l’esistenza e, quindi, non nominare mai un reale pericolo fascista, cioè quello di farne uso e riferimento in maniera “estensiva” e sin troppo ricorrente. Con il conseguenziale rischio di banalizzarlo e conferirgli un’immagine meno minacciosa di quanto meriterebbe.

In questo senso, già le situazioni e le realtà politiche presenti nell’Ue, in particolare in Polonia e in Ungheria, dovrebbero rappresentare concreti motivi di preoccupazione.

Il mio timore, cui abbino la speranza di essere platealmente smentito, è che quanto prima, all’indomani del prevedibile scenario prossimo venturo, con la Meloni quale prima donna incaricata di guidare un governo fascio/leghista/berlusconiano, si avvertiranno i segnali di un brusco richiamo alla realtà.

Oso azzardare, quali prime (illustri) vittime del “nuovo corso”: la “sterilizzazione” della legge 194/78, il “ridimensionamento”, se non la cancellazione, del Rdc e, non ultimi, ulteriori e più restrittivi interventi sul diritto di sciopero e sulle libertà d’espressione; del pensiero e delle proteste individuali e collettive.

NOTE

1) Famosa, in questo senso, la sua considerazione, che ritenevo errata, secondo la quale anche disponendo del 51 per cento dei voti sarebbe stato difficile, per una coalizione di sinistra, governare nel nostro Paese.

2) Il riferimento è alla prima pagina del quotidiano “Il Manifesto” che, il 28 giugno 1983, riportava la dichiarazione di Luigi Pintor <Non moriremo democristiani> dettata dal fatto che le elezioni politiche avevano prodotto un brusco calo dei consensi a favore della Dc, portando a soli tre punti percentuali la differenza tra la stessa e il Pci (che pure aveva registrato, tra Camera e Senato, mezzo punto percentuale in meno).

3) A personaggi quali D’Alema ancora oggi fischieranno le orecchie!

4) Grazie al c.d. “decreto Poletti”, del 15/6/2015, n. 81.

5) Già da diversi anni teorizzato da Tito Boeri e ulteriormente elaborato, in peius, da Pietro Ichino.

6) Fu in occasione delle elezioni politiche del giugno 1976 che Indro Montanelli, Direttore del quotidiano “Il Giornale”, di comprovata fede fascista (successivamente disconosciuta), si espresse così:” Turatevi il naso ma votate Dc” per fare fronte al pericolo “comunista” rappresentato dall’allora Pci di Enrico Berlinguer.

7) Fonte: “I nuovi volti del fascismo. Conversazione con Regis Meyran”, Editore: Ombre Corte (2017).

8) Penso, in particolare, alle situazioni attualmente in atto in Francia e Italia.

(immagine di Edoardo Baraldi)



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