Israele, noi e… gli altri

Un'analisi storico-filosofica del conflitto israelo-palestinese.

Giuseppe Panissidi

Nell’universo tragico, uno scenario sempre denso di microcosmi di follia, dove sembra che il Fato regni sovrano, di norma i conflitti si sommano, anzi crescono sui conflitti. L’individuo, smarrendo la via e la possibilità di incidere efficacemente nell’agire collettivo, si imprigiona nell’oscillazione tra innocenza e colpa
La hybris, tracotanza dell’orgoglio, finanche della libertà e del diritto, si rovescia in anfibolia, l’ambigua aspirazione dell’uomo a sentirsi artefice e padrone del suo destino. Se non che, il legittimo orgoglio ben presto cede alla disperazione, quando l’uomo, ancorché assistito dal proprio ritenuto diritto, scopre di non riuscire a creare alcunché, e, anzi, perpetua i propri patimenti, esacerbando la malattia congenita del mondo moderno: l’isolamento.

Le “ragioni” nella Storia
Sono trascorsi poco più di duecento anni da quanto, al culmine dell’idealismo classico tedesco, G. W. F. Hegel, nella “Fenomenologia dello Spirito”, una storia romanzata dell’umana coscienza, istruì la tradizione culturale dell’occidente intorno all’essenza della tragedia. Nel corpo di quell’opera di singolare ricchezza e complessità, ribaltando ogni precedente paradigma culturale, argomenta che l’essenza autentica e specifica del tragico non si identifica nell’opposizione dialettica tra ragione e torto, prontamente intellegibile, al limite dell’ovvietà, bensì nel conflitto plurale tra ragioni.
Ed è proprio siffatta natura del contrasto a rendere un conflitto autenticamente tragico, in quanto letteralmente indecidibile. Karl Jaspers ne riassume i termini con straordinaria lucidità intellettuale: “Tragico è quel conflitto in cui le forze che si combattono tra loro hanno tutte ragione, ognuna dal suo punto di vista. La molteplicità del vero, la sua non-unità, è la scoperta fondamentale della coscienza tragica”.

Mette conto ricordare che, nell’Antigone di Sofocle, la fine della tragedia si consuma presso la tomba di Edipo, dove Antigone è andata a commemorare la memoria del fratello defunto. Antigone, contravvenendo al divieto sovrano, non intende cedere e comprende che le si prospetta una sola soluzione per mantenere fede a sé stessa e superare la prova definitiva, il compimento dell’idea per la quale ha vissuto. Morire per essa. Solo tramite la morte volontaria può restare fedele al proprio compito e portare con sé il segreto nella tomba. In breve, ritiene di cerca e trovare respiro solo nella morte. La contraddizione tragica è sorta, nella coscienza della propria nuova libertà come arbitrio e isolamento. Purtuttavia, proprio nella tragedia risiede anche la possibilità della salvezza e dell’annullamento del tragico. L’individualità libera, seme del tragico, può essere felice solo se non si arrocca in sé stessa.

La posta etico-politica in gioco, dunque, diversamente da quanto si suole immaginare, non è la contrapposizione tra il diritto positivo custodito dal sovrano e il diritto naturale invocato da Antigone, bensì la contrapposizione tra due modi di interpretare lo stesso diritto naturale, tra due misure e dimensioni dell’esistenza umana.
Non v’è collisione tra ragione e torto, tra passione e dovere o tra due doveri. Una collisione tra doveri, nota Hegel, è perfino comica, perché pone di fronte alla contraddizione entro la “verità” e, pertanto, sancisce la nullità della verità!
In realtà, la coscienza etica conosce il proprio compito e sa che non dipende dall’accidentalità, bensì dalla natura stessa delle cose: “l’unico suo ostacolo è la debolezza”.

Optando per una delle due ragioni, la coscienza etica non ritiene che entrambe abbiano uguale valore, ma “vede il diritto soltanto dalla parte sua e il torto dall’altra”. Se non che, la realtà è dotata di forza propria e mostra alla coscienza in che cosa consista la verità. Inevitabilmente, secondo Hegel, l’agire implica una scissione, perché realizza un lato e si comporta negativamente verso l’altro. Ma, poiché la coscienza etica è l’unità delle due ragioni, l’agire, realizzando una delle due, evoca anche l’altra, benché come nemica, come ragione offesa. Epperò, la realtà effettuale inverte il punto di vista unilaterale della coscienza, che non può più vedere il diritto solo dalla sua parte, né può considerare una delle due ragioni come arbitraria e accidentale.
La tragedia di Antigone non è interpretata da Hegel come la rappresentazione del conflitto fra il diritto e la libertà contro l’antidiritto e l’illibertà. Antigone e il sovrano hanno, per Hegel, pari legittimità, pari giustizia e pari torto, poiché entrambi obbediscono a imperativi etici confliggenti e unilaterali. Nel vuoto della fluidità dello spirito, le posizioni etiche si contrappongono senza cercare una mediazione e un’elaborazione: l’azione “rimane al di dentro dell’immediatezza naturale e, in quanto operare, rende questa unilateralità una colpa”.

Ed è proprio attraverso l’azione che Antigone scopre che ciò che appariva estraneo non è che l’altro lato di una realtà unica. Deve così riconoscere che “l’opposto è qualcosa di suo”, e che, violando l’effettualità di un altro, ha offeso la dimensione unitaria della verità, la “sostanza”, nel linguaggio di Hegel.
Invero, se l’azione coincide solo con una parte, si perverte in colpa. E se genera scissione, è colpevole di gratuita, inammissibile, cieca violenza.  Innocente, conclude Hegel, non è neppure un bambino: solo la pietra.
“Legata alla propria identità, Antigone rifiuta la differenza e, nel momento in cui coglie la compresenza di proprio ed estraneo, la vive solo come una sua contraddizione e colpa, finendo con l’annullarsi”. Solo quando entrambi i lati fanno esperienza del medesimo declino, solo nell’uguale sottomissione di entrambi, può realizzarsi il diritto. Allora l’eticità emerge come la potenza negativa che assorbe entrambi e sorge “il destino onnipotente e giusto”.
Una prospettiva, quest’ultima, felicemente individuata dal laburista Shimon Perez, alter ego di David Ben Gurion, il creatore dello Stato di Israele, nonché Nobel per la pace insieme con Rabin e Arafat, e capo dello Stato dal 2007 al 2014.

Dopo circa due millenni e mezzo di diaspora ebraica e connesso antisemitismo, barbarie e persecuzione, a tratti a dir poco feroci, che hanno raggiunto l’apice nella Shoah, secondo il lungimirante Perez” i palestinesi sono il peccato originale di Israele… un popolo che viveva su quella terra, gli arabi… E per mondarci dal peccato, noi ebrei abbiamo soltanto una strada: dare loro uno Stato”. Uno Stato in una terra che “non è disabitata”, sottolinea Perez.  Per ragioni di completezza storica, bisogna integrare tale pertinente osservazione, precisando che essa non era disabitata nemmeno tremila anni addietro, quando Gerusalemme, territorio di conquiste, distruzioni e ricostruzioni, era uno dei più antichi centri abitati al mondo, con un ruolo cruciale per tutte e tre le religioni monoteistiche. La Città Santa degli ebrei per oltre tremila anni, dopo che, nel 1000 a.C., re Davide la conquistò, unificando le tribù che vi abitavano, riorganizzando il Regno di Israele dopo Saul. Ed è l’indagine archeologica, non il Gran Rabbinato, ad attestare che i primi nuclei di insediamento ebraico si sono formati in Canaan, sugli altipiani dei futuri regni di Giuda, al Sud, e di Israele, al Nord, attorno, per l’appunto, al 1200 a.C. Appare, inoltre, degno di nota che il Regno di Israele, con capitale Samaria, fu il primo ad assumere i contorni di uno Stato organizzato ed evoluto. Un dato storico incontrovertibile, emergente anche da testimonianze esterne alla Bibbia.

Palestina, pertanto. Ben tremila anni fa
Del resto, nel 1922 il re di Giordania aveva accettato ufficialmente la presenza dei sionisti in Palestina, e nel 1948 si accordava con Golda Meyr per la creazione di uno stato palestinese in Cisgiordania. Se non che, dopo che nel 1918 Vladimir Jabotinsky, ebreo sionista filofascista polacco, fonda la Legione Ebraica, un’organizzazione nazionalista fascistizzante e favorevole all’espulsione degli arabi, nel 1920, all’inizio del primo mandato britannico in Palestina, inizia, con i primi scontri armati tra arabi e sionisti, una lunga storia di reciproci e continui misfatti e atrocità.
In parafrasi dal Capitale di K. Marx sull’espropriazione degli operai, una storia “scritta negli annali dell’umanità a caratteri di sangue e fuoco”.
Di più. Or sono cent’anni, in virtù della “Carta bianca” di Winston Churchill, limitativa della portata della dichiarazione Balfour del 1917, concernente la spartizione dell’Impero ottomano dopo la guerra, l’Inghilterra inviava in Palestina Samuel Herbert come primo commissario, liberale, ebreo, sionista, nonché ispiratore della stessa dichiarazione. Tanto vero che, solo pochi anni dopo, la comunità ebraica in Palestina occupava ormai una fascia di territorio costiero con proprie strutture politiche e sociali che ne facevano una piccola entità nazionale indipendente

Il secondo conflitto mondiale, soprattutto a causa degli orrori antisemiti, accende un nuovo scenario. Nel 1942, infatti, il congresso sionista di New York approva il “programma del Biltmore”, con la rivendicazione di uno Stato ebraico sull’intero territorio palestinese dei tempi del dominio turco, come preconizzato da Weizmann nel 1917-19, oltre al diritto a un’immigrazione illimitata di ebrei verso la Palestina.

Soltanto in seguito, l’ala socialisteggiante e pragmatica di David Ben Gurion, particolarmente attenta al consenso internazionale, propose di costituire, forse in attesa di poterlo ingrandire, uno stato “limitato” ai territori già occupati.
Dal quadro qui delineato risalta tutta l’ambiguità (e l’incapacità) dell’Inghilterra. Per ben due volte, tanto nella Prima quanto nella Seconda guerra mondiale, aveva formalmente promesso, ma non concesso, l’indipendenza agli arabi. Un’ambiguità nefasta, abilmente sfruttata dalle frange estreme del sionismo, e che evidenzia l’inizio della contrapposizione tra l’Inghilterra, potenza mondiale in declino, e gli USA, potenza emergente.

A questo punto, si impongono domande… inaggirabili
Per quali misteriose ragioni lo Stato di Israele poteva/doveva sorgere soltanto nel 1948? Forse perché prima, vedi caso durante la lunga dominazione coloniale britannica della Palestina, il sentimento di colpa collettivo dell’Occidente era vagamente…sopito? In breve: era proprio indispensabile attendere la… Shoah?! Non giova fare mistero del fatto che tale è stata la percezione, aspra e forte, all’interno del mondo arabo…
Il senso di colpa, come sentimento di responsabilità o dovere, in realtà, è composito, in quanto che si nutre di inquietudine, sconforto e dolore, fino all’angoscia. E, tuttavia, non sempre è consapevole. Non di rado, infatti, osserva Sigmund Freud nel “Disagio della – meglio: nella – Civiltà”, “è pensabilissimo che anche il senso di colpa prodotto dalla civiltà non venga riconosciuto come tale, rimanga in gran parte inconscio o venga in luce come un disagio, come una scontentezza, per cui si cercano altre motivazioni”.
Lo Stato di Israele, dunque, quand’anche in colpevole ritardo, senza se e senza ma. E, al suo fianco, lo Stato dei palestinesi, dopo 75 anni, in una “terra del latte e del miele che non deve diventare la terra delle lacrime e del sangue… La pace si fa con i nemici, non con gli amici”, secondo Rabin, non a caso prontamente assassinato da uno dei tanti estremisti israeliani ostili alla pace con gli arabi.

Due “focolari nazionali”: un sogno a occhi spalancati chiusi, da citazione filmica
Dopo il dissennato rifiuto Arafat, che rivendicava il “diritto al ritorno” dei palestinesi alle loro case in Israele, invece che nello Stato di Palestina, la strada era drammaticamente segnata. Trattative e accordi, infatti, erano destinati a durare lo spazio di un mattino, nonostante il ritiro israeliano da Gaza nel 2005 e la completa rimozione dei suoi insediamenti civili e basi militari.
Fino all’anno seguente, quando Hamas, definito “organizzazione terroristica” dagli Usa e dalla Unione Europea, grazie ai cospicui finanziamenti dell’Iran e degli Hezbollah libanesi, prevale in un duro scontro politico-elettorale e prende il potere a Gaza, ottenendo la maggioranza assoluta al Consiglio legislativo palestinese. Ebbene, se non è possibile identificare tutti i palestinesi con Hamas, come amano ripetere le “anime belle” del sarcasmo hegeliano, è però del tutto evidente che (almeno) la propria e ampia constituency elettorale, questa sì, è identificabile con il “Movimento di resistenza islamica”, nato nel 1987, durante la prima Intifada. In ogni caso, le stranezze non mancano.

Del resto, sia il capo del governo, Mohammad Shtayyeh, benché solo nominale, sia Isma’il Haniyeh, di fatto leader di Hamas, sia il capo di Stato, Mahmūd Abbās, anch’egli nominale, a seguito della nomina di Aziz Duwaik da parte di Hamas, sia Yahya Sinwar, leader di Hamas, che Israele considera “un uomo morto”, sia Mohammed Deif (se questo è il suo vero nome), il capo delle brigate militari e, verosimilmente, l’artefice dell’attuale operazione Al-Aqsa contro Israele, dopo quasi vent’anni (quisquilie) dalle ultime consultazioni popolari generali, si guardano bene dall’indire nuove elezioni (più o meno) ‘democratiche’. In fondo, hanno le loro ragioni. Leggi: palesi criticità… domestiche.
E fino a Benjamin Netanyahu, premier di destra, evidentemente distratto, sotto la cui controversa e divisiva linea politica è (non troppo) inopinatamente maturato il brutale attacco di Hamas del 7 ottobre scorso.
“È sempre guerra”, scrive Tolstoj.
Lo hegeliano “regno animale dello Spirito”, il conflitto, ossia, quale modalità della relazione interumana, nella metafora speculativa di Hegel, propaga sé stesso ed estende i suoi tentacoli, a tutto tondo, sotto il cielo. Ora, dal fronte russo-ucraino al mare nostrum orientale, all’incandescente Medioriente. Dove, da cent’anni, la violenza continua a manifestarsi tutt’altro che (marxianamente) “levatrice” di storia nuova e progressiva.
La speranza si rivolge, oggi come non mai, alle nietzschiane “mani d’acciaio della necessità che scuotono il bossolo dei casi”. Fatalità, dunque? Se così fosse, memori di Hegel, l’auspicio è che la potenza negativa dell’eticità politica assorba entrambi e, finalmente, sorga “il destino onnipotente e giusto”. Finalmente.



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