Un’agenda sociale condivisa per unire la sinistra. Si può fare? Ma soprattutto: fa sognare?

L'assemblea del 22 aprile 2023 alla Casa internazionale delle Donne ha lanciato un percorso per unire la sinistra attorno a un'agenda sociale condivisa, proposta dalla Rete dei Numeri Pari. Le battaglie giuste da fare ci sono, ma l'afflato ideale è molto scarso.

Federica D'Alessio

Lanciare percorsi chiari di attività e mobilitazione per unire la sinistra cominciando dalle forze politiche che hanno sottoscritto l’agenda sociale lanciata, nei mesi scorsi, dalla Rete dei numeri pari che riunisce oltre 700 realtà locali e nazionali di impegno e lotta. Questo era l’ambizioso obiettivo dell’assemblea che si è tenuta sabato 22 aprile alla Casa internazionale delle donne di Roma. Pochi punti condivisi che la Rete – un’aggregazione di realtà di impegno sociale sui territori che comprende oltre settecento sigle dislocate su tutto il territorio nazionale – ha proposto come base per un tavolo di lavoro permanente e cadenzato, che si incontrerà una volta al mese e vedrà la partecipazione, questo almeno l’impegno che è stato esplicitamente preso in assemblea, di tutte le principali realtà politiche parlamentari ed extraparlamentari dell’arco progressista e di sinistra: Partito democratico, Movimento 5 Stelle, Sinistra Italiana, Unione popolare. “Sono solo parole”, per citare la canzone di Noemi che Nanni Moretti riprende ed esalta nel suo ultimo film “Il sol dell’avvenire”?
Qualche dubbio è lecito. Ma cominciamo intanto dalla buona volontà. Ciascuna delle sigle politiche elettorali ha espresso importanti presenze all’assemblea di sabato. A cominciare da Giuseppe Conte, ex Presidente del Consiglio, che ha partecipato dal vivo all’assemblea insieme al capogruppo del Movimento 5 Stelle alla Camera Francesco Silvestri. Una presenza tutt’altro che scontata, anche perché proprio la Casa internazionale delle donne è stata, negli anni, il simbolo di una profonda distanza fra il movimento grillino e la sinistra, particolarmente quando l’ex sindaca di Roma Virginia Raggi ne fece il bersaglio di una campagna legalista dal sapore fortemente repressivo. Era collegata in video Elly Schlein, e dal vivo i suoi due bracci destri della nuova segreteria, Marta Bonafoni e Marco Furfaro. C’erano Nicola Fratoianni per Sinistra Italiana, Luigi De Magistris per Unione Popolare, Maurizio Acerbo per Rifondazione Comunista. La FIOM-CGIL, nella persona di Barbara Tibaldi e la FLAI-CGIL con Tina Balì, già capolista della (non fortunata) lista unitaria M5s/Sinistra progressista per la regione Lazio.

 

La madre di tutte le battaglie: fermare l’autonomia differenziata
Fin dalla sua costituzione la Rete dei numeri pari ha fatto del NO all’autonomia differenziata il suo principale motivo d’esistere. Perché questa riforma “eversiva”, come più e più volte l’ha definita il responsabile della rete Giuseppe De Marzo, distruggerà l’unità della Repubblica italiana realizzando la secessione dei ricchi, sostituendo l’universalismo del welfare state con la burocratica e tecnocratica definizione dei “Livelli essenziali di prestazione” che faranno capo alle Regioni. E significheranno la distruzione, di fatto, del principio sancito dall’articolo 3 della Costituzione italiana: ovvero l’uguaglianza sociale di tutti i cittadini e il dovere della Repubblica di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Il percorso del DDL Calderoli, inoltre, come è stato da molti ricordato, è antidemocratico nel metodo, visto che esautora completamente il ruolo del Parlamento e istituisce una “cabina di regia” governativa insieme alle regioni per definire i livelli delle prestazioni minime, sottraendo così ogni responsabilità al potere legislativo.

“L’autonomia differenziata va fermata con tutte le tecniche che il Parlamento mette a disposizione, e questo è il primo impegno che chiediamo alle forze politiche presenti in quest’assemblea” ha ribadito De Marzo con forza, chiedendo ostruzionismo ai parlamentari e ogni tipo di azione possibile per impedire il proseguimento dell’iter dal quale uscirebbe un’Italia spaccata in due, dove essere bambini – o ammalarsi – a Potenza o a Merano significherebbe aspettative di vita radicalmente differenti. Anche Marina Boscaino ha ripetuto lo stesso concetto aggregando in più la necessità, per il centrosinistra e per il Partito democratico in particolare, di assumersi qualche responsabilità in più, visto che le sirene dell’autonomia differenziata hanno suonato anche dalle loro parti affascinando innanzitutto colui che oggi è il Presidente del Partito democratico, Stefano Bonaccini, che infatti ha stipulato una preintesa con il Governo sul tema. Boscaino ha chiesto esplicitamente il ritiro della stessa, ma su questo tema Schlein nel suo intervento si è tenuta, come già in passato, vaga. “No all’autonomia differenziata di Calderoli”, ha detto nel suo intervento, che non significa “No a qualsiasi ipotesi di autonomia differenziata”. Il centrosinistra d’altra parte è stato fondamentale nel dare il via al processo di disgregazione dell’unità della Repubblica – la famosa riforma del titolo V della Costituzione – e se Schlein rivendica il diritto di non doversi assumere la responsabilità di ogni errore che l’abbia preceduta, a maggior ragione segnalare, con forza e serietà, quali furono gli errori per non ripeterli nel futuro diventa imprescindibile. Non doverseli assumere significa rivendicare proprio la libertà di poterli nominare e individuare, non il diritto di passarci sopra e ignorarli.

“Uscire dalla retorica costituzionale”, in poche parole, per prendere sul serio la Costituzione, ha chiesto Gaetano Azzariti del comitato Salviamo la Costituzione, a sua volta in prima fila nella lotta contro l’autonomia differenziata. Se non siete disposti a fare questo, se il richiamo alla Costituzione serve solo ad ammantarsi di belle parole, non disturbateci oltre, è stato il messaggio molto netto di Azzariti.

Intersezionalità, un mantra astratto e ideologico
Eppure, nonostante questo appello, di retorica tanta se n’è ascoltata, durante l’assemblea. Che è stata sì numerosa, sì partecipata, ma anche tristemente l’espressione di un déjà-vu politico che va avanti ormai da decenni nell’ambiente della politica di sinistra (prevalentemente) romana. Questo nonostante il continuo richiamo all’intersezionalità fatto da tanti e tante, da Schlein, da Maura Cossutta della Casa internazionale delle donne, da Marta Bonafoni vice della segretaria del PD, e nonostante la pretesa – espressa dalla stessa Bonafoni – che la vittoria di Schlein alle primarie del PD rappresenti un vento nuovo tout court per la sinistra italiana. In realtà, le facce erano bene o male le stesse di sempre. Dov’erano, per fare solo un esempio, le rappresentanze di immigrati? Dall’intersezione del già visto viene fuori solo un già visto intersecato, un po’ poco per parlare di novità. E l’impressione è che la capacità di accogliere il protagonismo in carne e ossa di chi subisce le disuguaglianze sociali sia un vulnus di quest’area. Innanzitutto sul tema del lavoro, pochissimo toccato dall’assemblea; molto più complicato da affrontare, evidentemente, rispetto a quello del reddito. Fra le varie ragioni, perché pone la grande questione della soggettività di chi lavora, di come confrontarsi con l’espressione della pluralità del mondo del lavoro e con la difficoltà – e i fallimenti – del sindacalismo. Se da tempo è stata raggiunta una convergenza tra forze politiche principali sul tema del salario minimo, è in alto mare la definizione di qualsiasi visione comune sulle politiche del lavoro fra partiti, sindacati confederali, sindacati di base, movimenti, lotte e una delle dimostrazioni plastiche più contundenti è stata la clamorosa assenza, in assemblea, proprio di queste realtà. Perché i sindacati di base che ne organizzano una componente importante, sia nella logistica sia nel bracciantato, non stanno prendendo parte a un simile percorso? L’unica persona che ha ricordato il tema delle migrazioni con la dovuta forza nel corso dei diversi interventi è stata Alice Basaglini di Baobab Experience, che ha dovuto rammentare a tutti i presenti come le leggi razziste del Governo attuale trovino ragion d’essere in un percorso di razzismo istituzionale che risale al Testo Unico sull’immigrazione Napolitano-Turco, firmato cioè da due ex comunisti, e mai disconosciuto dal centro-sinistra. E tuttavia, anche il paradigma dell’accoglienza e del salvataggio in mare pur così importante rischia di divenire addirittura destrorso, perché paternalista, nel momento in cui un’assemblea che si propone di discutere le disuguaglianze sociali non fa i conti con l’immigrazione come realtà innanzitutto del lavoro, del nuovo proletariato, della precarietà più sfruttata nel caso dei braccianti o dei rider, ma anche degli operai del nord o degli edili, delle badanti, delle lavoratrici straniere delle cooperative, del terzo settore che oggi è una fucina di malaffare in cui – come è emerso anche nella vicenda del centro di accoglienza gestito da Marie Therese Mukamitsindo o in quella della cooperativa Synergasia, la scarsa trasparenza istituzionale crea costanti zone grigie e nuove forme di micropadronato, e così via. Il rischio è che la composizione sociale di questa sinistra che cerca di unirsi rimanga ben al di qua della realtà dello sfruttamento e della condizione effettiva delle classi subalterne di questo Paese. E se certo sono comprensibili le ragioni per cui una personalità come Aboubakar Soumahoro, pur ormai libera da qualsiasi ombra di accusa personale, non viene invitata a intervenire nella stessa stanza con  quel Nicola Fratoianni che non lo ha mai difeso quando il suo ex fiore all’occhiello si è trovato nel mirino, non è chiaro perché di braccianti – o di badanti – non ve ne fossero proprio. Eppure il concetto di “intersezionalità” difficilmente trova un senso se non serve a far prendere la parola proprio ai più invisibili fra tutti (e anche a questo scopo, almeno a chi scrive non pare un concetto particolarmente indispensabile, giacché frutto di un pensiero accademico, schematico e che funge persino – paradossalmente – da strumento di colonizzazione culturale se importato così com’è dagli Usa, dov’è nato e si è diffuso, in questo Paese dove il tessuto sociale e la storia delle lotte e delle stesse discriminazioni è completamente diversa).

Molti leader e pochi sogni
Un altro punto da considerare è che – su questo bisogna riconoscere e sostenere il coraggio della Rete dei Numeri Pari – unire le diverse realtà politiche significa come è stato fatto in assemblea chiedere a ciascuna realtà, ed è una richiesta giunta con forza dall’assemblea sebbene in modo intelligentemente implicito, di tenere a bada gli ego dei rispettivi leader e i rispettivi settarismi competitivi, nella consapevolezza che la dimensione non indifferente degli stessi comporta un rischio e lo comporterà sempre. Gli interventi dei leader di partito hanno in qualche modo espresso la difficoltà a uscire da sé: ciascuno, da Giuseppe Conte a Luigi De Magistris, da Maurizio Acerbo a Nicola Fratoianni, senza esplicitarlo ha sostanzialmente rivendicato il suo percorso personale e i suoi cavalli di battaglia. Dal PNRR e le conquiste ottenute durante la pandemia “da cui non stiamo imparando niente” di Conte, fino alla rivendicazione dell’esperienza di sindaco a Napoli di De Magistris, dalla necessità del settarismo che caratterizza all’essenza il posizionamento di Maurizio Acerbo, in questo caso in una polemica con il PD rispetto al sostegno alla resistenza ucraina, fino a Fratoianni che ha proposto la sua presenza a fronte di pochissima sostanza, in un intervento di rara debolezza. Ha cominciato mettendo le mani avanti sull’efficacia dell’ostruzionismo per fermare l’autonomia differenziata, ha infine detto “Se vogliamo davvero fermare questa destra”… e non ha detto cosa dovremmo fare, a parte “costruire l’occasione”. Ma l’occasione gliel’ha fornita l’assemblea stessa, e  spiace l’abbia sprecata con un intervento tanto generico. Per Schlein il discorso è molto diverso. Nel suo caso l’ego che lei stessa per prima – e chiunque intenda cercare percorsi di alleanza con il PD – dovrà tenere a bada è l’ego composito di un partito tutto, che persevera nel vizio di considerarsi espressione di una qualche parte migliore della società, alla quale per somma ingiustizia sarebbe stato sottratto lo scettro dell’egemonia culturale dalla destra, ma che grazie alla vittoria di una nuova mozione ora potrà ribadire la propria leadership sull’elettorato. Bonafoni ha detto “si sono rotti argini di solitudini con la vittoria della nostra mozione, sono le solitudini del nostro stesso elettorato” ma questo elettorato è ancora molto lungi dall’essere stato riconquistato. E un po’ di prudenza e umiltà in più non guasterebbe. Specialmente quando Furfaro ha affermato “ci danno la colpa di cose che non abbiamo fatto noi e se la prendono con gli immigrati e votano Meloni perché la destra ha saputo costruire una egemonia culturale”, ha affermato qualcosa di molto consolatorio, ma anche falso. L’egemonia culturale in questo Paese si è affermata in modo tristemente bipartisan, come si suol dire, a suon di decenni di governi di unità nazionale e partiti incarnazione di un interesse e del suo opposto, all’insegna dell’accettazione del motto “There is no alternative” tradotto per il nostro Paese. Politiche di addormentamento del conflitto sociale e di schiacciamento delle speranze e dei sogni degli individui. È scomparsa una politica che sappia far sognare, una politica che sappia mettere la leadership al servizio dei bisogni delle persone senza chiudersi nei particolarismi e negli identitarismi: innanzitutto sostenendo la dignità delle persone più sfruttate, delle meno considerate, delle più disumanizzate. Per tornare a suscitare il desiderio di protagonismo e cambiamento in prima persona, non semplicemente fare promesse attraverso un catalogo di soluzioni. Questa è la prima grande sfida della sinistra, candidamente confessata da Tina Balì di FLAI-CGIL nel suo intervento, quando ha detto: “Oggi le persone si mobilitano solo se noi organizziamo tutto per loro. Non c’è più partecipazione spontanea. Se noi non offriamo una struttura che ha già tutto pronto, non si mobilitano più”. C’era qualcosa che teneva insieme, fino a pochi anni fa, un popolo variegato e differente di persone che vivevano vite diverse fra loro ma si ritrovavano sotto l’insegna di grandi valori condivisi. Valori da cui non scaturivano immediatamente soluzioni politiche da portare in offerta,  valori che rappresentavano prima di tutto un modo di vivere a tutti i livelli. Oggi questi valori non sono più neanche verbalizzati; sono stati schiacciati dall’ipertrofia delle ricette politiche, dell’azione governista, dell’amministrativismo, del proporre soluzioni senza idealità e richieste politiche tutte rivendicative e reclamanti questo o di quell’altro “diritto” particolare, senza afflato umano oltre le differenze. La politica che si voglia unire dovrà porsi necessariamente questo problema: unirsi non solo su quali azioni, ma unirsi su quali sogni, su quali visioni, su quali ideali e valori. Non importa se siano stati schiacciati, traditi o sconfitti, gli ideali vivono – è un bel messaggio che proviene dall’ultimo film di Nanni Moretti – nei sogni che li hanno accompagnati, nell’immaginazione e nel pensiero. L’assemblea del 22 aprile non ha lasciato spazio ai sogni, non significa che non sia stata utile: potrà esserlo se darà avvio a un percorso, ma c’è bisogno di più generosità, più onestà e più verità nel riconoscere che nel proprio mondo di riferimento è avvenuta una trasmutazione culturale che non dipende dall’egemonia della destra, bensì dall’oblìo delle utopie.

CREDITI FOTO: Facebook, Rete dei Numeri Pari/MicroMega



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