Fine dell’Urss, fine dell’“Impero del Male”?

Trent’anni fa si dissolveva l’Unione Sovietica. La sua storia, attraversata da drammatiche contraddizioni interne, ha cambiato il mondo.

Michele Martelli

Trent’anni fa, il 26 dicembre 1991, l’Urss si dissolveva, dopo 70 anni dalla sua nascita. Facile da immaginare il tripudio dell’Occidente: l’«Impero del Male» (Donald Reagan dixit)[1] era finalmente crollato; «fine della storia»: il liberal-capitalismo era lo stadio perfetto, il culmine del progresso storico umanamente raggiungibile (Fukuyama)[2]. Urss e marxismo? Un’illusione, «il passato di un’illusione» (Furet)»[3]. Eppure, quei «dieci giorni» della Rivoluzione d’Ottobre, secondo un famoso giornalista testimone dei fatti, «avevano sconvolto il mondo» (Reed)[4]; l’Urss, appena nata, aveva scritto Henri Barbusse nel 1923, «è, più del Cristianesimo, più della Rivoluzione francese, il fatto capitale, e più importante della storia del mondo. Per essa l’umanità inizia una seconda tappa»[5]. Per tutti, valeva un’interpretazione favolistica dell’Urss, positiva o negativa, a seconda dell’osservatore. Di gran lunga preferibile, oggi, una valutazione storica possibilmente più realistica. Che, a mio parere, potrebbe snodarsi, tra l’altro, sulle seguenti tre linee.

A) Innanzitutto, l’Urss, il «Soviet Marxism»[6] o il marxismo novecentesco, coniugato in molteplici forme, non sono stati ovviamente un’illusione. Il marxismo, da «idea» si è fatta storia, prassi storica mondiale. E L’Urss, nata dall’Ottobre, è difficile negare quanto, nei suoi settant’anni di vita, abbia cambiato il mondo. Basti pensare alle lotte di liberazione nazionale dei paesi e popoli del Terzo Mondo dall’oppressione colonialistica dell’Europa, spesso guidate dai Partiti comunisti nati nel quadro della Terza Internazionale, subito dopo l’Ottobre, e i cui massimi esempi, nel Sud-Est asiatico e in America latina, sono stati, e sono, la Corea e il Vietnam, Cuba e la Cina, indipendentemente dai giudizi più o meno severi che oggi possiamo dare sui loro regimi interni. O alla sconfitta storica del nazifascismo, di cui Stalingrado è uno dei simboli principali. O all’intervento statale nell’economia e al Welfare State del Secondo dopoguerra in Europa, U.K. compreso. Tutti fenomeni in qualche modo indirettamente indotti dal modello sovietico, che, con tutte le sue pecche e storture, aveva però portato la Russia fuori da un grado mostruoso di arretratezza, analfabetismo, incultura e povertà, garantendo alla gran parte dei i suoi cittadini piena occupazione, istruzione, casa, sanità e altri servizi sociali[7]. Modello a cui qualcosa deve anche la nostra Costituzione (Art. 1, 41), se il Caimano la definì «sovietica», quindi da smantellare.

B) Che la storia dell’Urss sia stata attraversata da drammatiche contraddizioni interne, è altrettanto innegabile. A me pare di doverne qui evidenziare almeno tre, in paradossale controtendenza con gli effetti oggettivamente rivoluzionari o progressisti di cui sopra.

1) La contraddizione nazionale tra la Russia e le altre repubbliche sovietiche: accentuata dallo sciovinismo grande-russo staliniano, essa causò, nel contesto del programma di «industrializzazione forzata», l’esodo, soprattutto dall’Ucraina, di milioni di persone, contadini e intellettuali, dissidenti e oppositori, nell’«universo concentrazionario dei gulag», in condizioni di vita e di lavoro terribilmente disumane; a cui fece seguito, in epoca post-staliniana, il conflitto tra l’Urss e i paesi est-europei, i cosiddetti «paesi satelliti» della famigerata «Dottrina Breznev della sovranità limitata»: vittime l’Ungheria di Nagy del 1956 e la «primavera di Praga» del 1968, schiacciate brutalmente dai carri armati sovietici. «Lo zarismo non fu il contenuto della Rivoluzione d’Ottobre», così Ernst Bloch, il filosofo dell’«utopia concreta», commentò amaramente la repressione di Praga.

2) La contraddizione tra burocrazia partitico-statale e l’insieme delle classi popolari, innestata su una rigida «economia di comando» pianificata dall’alto: dopo i primi successi, in termini di «accumulazione primitiva», degli anni Trenta, che, come già detto, costarono «lacrime e sangue», l’economia sovietica mostrò gradualmente le sue falle in epoca brezneviana, fino alla stagnazione economica degli anni Ottanta e all’insorgere di disuguaglianze sociali e privilegi di classe in totale contrasto con le promesse dell’Ottobre; a ciò va aggiunto il dispotismo dittatoriale del «partito-che-si-fa-Stato», «che-ha-sempre-ragione», «che-fa-tutto-sempre-correttamente», ma che ignora qualsiasi nozione di «Stato di diritto», di «diritto naturale», di pluralismo e istituzioni democratiche: Bloch parlò di «zarificazione russa del marxismo»; l’ultimo Sartre definì sarcasticamente l’Urss «il regno della Cosa», e il partito-Stato sovietico la «Chose au pouvoir»[8]; suo esito furono prima le feroci «purghe» e il «Terrore» staliniano degli anni Trenta, poi la sistematica repressione del dissenso nel periodo post-staliniano.

3) La contraddizione tra riformismo e conservatorismo: la fine dello stalinismo, ufficialmente decretata dal XX Congresso del Pcus, richiedeva un urgente programma di profonde riforme economiche per reggere la sfida dell’Occidente, dalla soluzione della crisi dell’agricoltura, la cui produzione non era più in grado di soddisfare il fabbisogno nazionale, alla promozione dell’industria dei beni di consumo e voluttuari, totalmente carente a fronte dello sviluppo gigantesco dell’industria pesante, tecnologica, militare e spaziale. Ma per attuare tali riforme, occorreva passare dalla dittatura del partito-Stato alla sperimentazione di forme inedite di «democrazia socialista» o «liberal-socialista», che, oltre ai diritti sociali, la «libertà dal bisogno», dalla fame, disoccupazione e povertà, includesse i diritti politici e civili, la libertà come autonomia individuale[9]. E invece, nella fase brezneviana, prevalse un ferreo ottuso conservatorismo: le strutture del partito-Stato furono irrigidite, fino alla sclerosi, nomenklatura e corruzione dilagarono, le disuguaglianze sociali in forte aumento, critica e dissenso sottoposti a dure pene, la cultura ridotta all’antiscientifico e antifilosofico dogmatismo del «Dia-mat». Una società pietrificata. Il fallimento del confuso ondivago e contraddittorio riformismo liberaloide di Gorbaciov, seguito dal golpe di Eltsin del 1993, vi pose il suggello finale. Era il trionfo dell’Occidente imperial-capitalistico.

C) Fine dell’Urss fine dell’«Impero del Male»? No, perché la formula reaganiana implicherebbe che «Usa = Impero del Bene», in una visione geopolitica manichea risalente per lo meno all’Ottocento[10], perpetuatasi fino a Bush Jr, alla guerra contro l’Iraq di «Satan Hussein» e l’Afganistan talebana, due degli «Stati canaglia» dell’«Asse del Male», visione ormai in crisi, da Obama a Trump a Biden. In un manicheismo rovesciato, troppo facile sarebbe colorare la storia degli Usa soltanto con le vertiginose incolmabili distanze interne tra i ricchi oligarchi e i milioni di poveri socialmente emarginati, o con gli orrori del razzismo bianco contro i neri, della catena di golpi militari in America latina, supportati dalla Cia, della pioggia al napalm sul Vietnam, del «bombing police» e così via[11]. Ma si cadrebbe in un opposto ideologismo, altrettanto pregiudiziale e unilaterale, che farebbe torto a quella che, nonostante tutto, è stata la prima grande democrazia liberale della modernità. Resta però un fatto. Dopo la fine dell’Urss si è scatenato il finanz-capitalismo neoliberista, di stampo prevalentemente statunitense, che ha ulteriormente ridotto alla precarietà le fasce sociali più basse (prive di casa, istruzione, sanità ecc.), prodotto mostruose diseguaglianze su scala globale, svuotato e asservito gli Stati nazionali, aggravato una crisi ecologica planetaria che nessun G8 o G20 riesce più ad arginare, pericolosa per la nostra stessa sopravvivenza. Dopo l’Urss, il mondo a trazione neoliberista non sembra messo molto bene.

NOTE

[1] Cfr. Impero_del_Male.pdf (identitanazionale.it)

[2] Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano, 1992.

[3] François Furet, Il passato di un’illusione. L’idea comunista nel XX secolo, Mondadori, Milano, 1995.

[4] John Reed, I dieci giorni che sconvolsero il mondo, Mondadori, Milano, 2017.

[5] Henri Barbusse (1923), Lettera agli intellettuali, Mastellone, Milano, 1950.

[6] Herbert Marcuse (1958), Soviet Marxism, Guanda, Parma 1968.

[7] Cfr. Jean Ellenstein, Storia del fenomeno staliniano, Editori Riuniti, 1975, la cui analisi equilibrata mi sembra tuttora valida.

[8] Ernst Bloch, Karl Marx, il Mulino, Bologna, 1972, pp. 445-451, 478-482; Jean-Paul Sartre, Il socialismo venuto dal freddo (1970), in Id, L’universale singolare. Saggi filosofici e politici dopo la “Critique”, il Saggiatore, Milano, 1980, pp. 220-221; cfr. al riguardo Michele Martelli, I filosofi e l’Urss, La Città del Sole, Napoli, 1999, pp. 87-110, 152-178.

[9] Cfr. Norberto Bobbio, Politica e cultura, Einaudi, Torino, 19722, pp. 278-279: posto che, – si chiedeva il filosofo nel 1954-55, nel corso di una famosa polemica con Togliatti, – «siamo liberi di stampare un giornale» (nel senso di averne il potere, cioè i mezzi, assicurati dalla distribuzione collettiva della ricchezza sociale), se «non possiamo stamparlo liberamente» (nel senso di poter manifestare senza impedimento o costrizione le nostre idee), «che razza di potere» abbiamo? Il capo del Pci aveva sostenuto, nel 1954, che «nei regimi liberali» nessuno, se «privo dei mezzi materiali», ha mai «potuto «pubblicare un giornale» (P. Togliatti, In tema di libertà, in Id., Opere complete, Editori Riuniti, Roma, V, pp. 863-870.

[10] Cfr Anders Stephanson, Destino manifesto. L’espansionismo americano e l’Impero del Bene, Feltrinelli, Milano, 2004.

[11] Cfr Mario Del Pero, Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo 1776-2016, Laterza, Bari-Roma, 2017; Howard Zinn, Storia del popolo americano. Dal 1942 a oggi, il Saggiatore, Milano, 2017.

 

(credit foto EPA/MIKHAIL JAPARIDZE)



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