“Ustica, alto tradimento”. In ricordo di Andrea Purgatori

È morto nella mattina del 19 luglio a Roma Andrea Purgatori, giornalista, sceneggiatore e autore televisivo. Lo ricordiamo con un suo scritto, una lettera aperta indirizzata all'allora presidente del Consiglio Romano Prodi, pubblicata nel numero 4/1998 di MicroMega che chiede giustizia per la strage di Ustica.

Andrea Purgatori

Signor presidente del Consiglio,
troverà forse eccentrico che nel mezzo di tante emergenze di fronte alle quali il nostro paese si trova, qualcuno abbia voglia di richiamare lei e il suo governo a confrontarsi con una vicenda che si consumò poco meno di diciannove anni fa e non riguarda migliaia o milioni di italiani – magari i disoccupati, magari i terremotati ancora nelle roulotte – ma appena 81 persone, una cinquantina di famiglie e un pugno di militari diciamo smemorati, gran parte dei quali in pensione.

Il fatto però è, signor presidente, che l’inchiesta sulla strage di Ustica sta faticosamente agguantando il traguardo di un processo e che, quando una Corte d’Assise arriverà finalmente a giudicare gli eventuali imputati (nel Duemila?), ai morti di quell’aereo esploso per cause tuttora ufficialmente sconosciute se ne saranno verosimilmente aggiunti altri per cause anagrafiche: testimoni, imputati, familiari delle vittime… al punto da rendere quasi superflua una sentenza. A meno che non si consideri questo come altri processi per strage un risarcimento alla memoria, dove alla fine nessuno paga mai, non ci sono colpevoli e per capirci qualcosa non servono più i cronisti ma soltanto gli storici.
All’inizio dello scorso agosto, signor presidente, si sono verificate due circostanze piuttosto singolari che possono essere lette separatamente oppure, con minimo sforzo, analizzate specularmente. Da una parte, i tre pm dell’inchiesta sulla strage di Ustica (1980-1998) hanno consegnato la loro requisitoria al giudice istruttore. Dall’altra, le autorità militari americane hanno rimosso dall’incarico il responsabile dell’attività di volo dei piloti presso la base di Aviano, dopo appena sei mesi di indagine sul disastro della funivia del Cermis e con una motivazione da levare la pelle a qualunque soldato (occultando e distruggendo dati indispensabili a formulare un giudizio di merito sull’operato dell’equipaggio responsabile della strage, ha «disonorato il corpo dei marine»).

Sono poi accadute altre cose all’inizio di agosto, signor presidente. Ad esempio, un gruppo di alti ufficiali a riposo dell’aeronautica si è scagliato contro la richiesta dei tre pm di processare una decina tra generali e colonnelli accusati del depistaggio sulla strage di Ustica (con l’aggravante dell’alto tradimento), arrivando a sostenere che in questa vicenda il vero depistaggio non lo hanno compiuto i vertici dell’arma azzurra ma la presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime del DC9 Itavia, la senatrice Daria Bonfietti. E la stampa, naturalmente.
Hanno insinuato questi alti ufficiali, che sui loro biglietti da visita si fregiano del grado di generale di squadra aerea e affermano di aver sempre lavorato nell’interesse dello Stato (cioè per noi tutti e anche per lei, signor presidente), che dietro la ricerca della verità su Ustica si celano solo miserabili interessi di rimborsi, indennizzi, assicurazioni e soprattutto carriere. Che, insomma, la Bonfietti, gli eredi dell’Itavia e qualche giornalista avrebbero solo da guadagnarci (dove non l’hanno già fatto) a dimostrare che la sera del 27 giugno 1980 ci fu una battaglia nei cieli e quel DC9 in volo nello spazio aereo posto sotto il controllo della nostra difesa venne abbattuto da un missile o si scontrò con un caccia.

Succede però, signor presidente, che mentre questi alti ufficiali non hanno portato a conforto delle loro insinuazioni una sola prova, la lettura delle settecento pagine della requisitoria dei pm dimostra invece che le prove per inchiodare alle loro responsabilità i vertici dell’aeronautica di allora (e non solo) ci sono, sono numerose e sconvolgenti. Si tratta di una requisitoria che ripropone questioni irrisolte, istituzionali e politiche, di rilevanza nazionale e internazionale. E che, ci piaccia o non ci piaccia, signor presidente, riapre gli interrogativi sulle complicità di cui i depistatori hanno potuto servirsi in questi lunghi anni.
Diciannove anni di indagini (quaranta, cinquanta…) non possono comunque giustificare una condanna sommaria, prima di un regolare processo in un’aula di tribunale. Vero. Sono però sufficienti a sostanziare un giudizio sui comportamenti. E converrà, signor presidente, che se uno finge di non saper guidare mentre in tasca ha invece una regolare patente, ciò non è di per sé prova di colpevolezza rispetto a un incidente stradale nel quale è stato chiamato a testimoniare, ma qualche dubbio sull’attendibilità della sua testimonianza lo pone. Se poi, una volta scoperta la bugia, que­st’uno tornasse a dirigere il traffico a piazza Venezia, converrà, signor presidente, che il tutto potrebbe risultare difficilmente comprensibile. E sospetto un conseguente silenzio del sindaco.

Questo per dire che nella requisitoria si fanno non soltanto nomi e cognomi di imputati che i pm vogliono mandare alla sbarra, non soltanto nomi e cognomi di imputati che rischiano di uscire dal processo perché il reato loro contestato è caduto in prescrizione (a proposito: possibile che la falsa testimonianza in un’inchiesta per strage pesi e valga quanto la falsa testimonianza nell’inchiesta per un incidente stradale?). Se avrà il tempo e la voglia di sfogliarla, signor presidente, in questa requisitoria troverà anche nomi e cognomi di ufficiali e sottufficiali che ancora risultano in servizio permanente effettivo al vertice e alla base dell’aeronautica.
Ci troverà più volte il nome del generale di squadra aerea Mario Arpino, ad esempio (pagina 526 e seguenti). Oggi capo di stato maggiore e la sera del 27 giugno 1980 responsabile del Cop, la sala operativa dello Stato maggiore dell’aeronautica militare. E scoprirà che di quanto al Cop si fece in quelle ore affannate a cavallo della strage per accertare notizie sulla presenza in volo di aerei militari americani, nulla o quasi nulla è rimasto. Sparita la documentazione dei contatti, delle telefonate, del circuito di informazioni veicolate da quel centro nevralgico della nostra difesa, svanita o annebbiata la memoria di chi era in servizio.

Sfoglia e sfoglia (pagina 509 e seguenti) troverà, signor presidente, il nome di un altro generale di squadra aerea: Sandro Ferracuti. Il quale è stato sottocapo di Stato maggiore con Arpino e nel 1980 fu responsabile della commissione d’inchiesta italo-libica che indagò sulla caduta del Mig 23 sulla Sila, concludendo che il caccia era decollato alle ore 9 e 54 minuti della mattina del 18 luglio di quello stesso anno dall’aeroporto di Benina (Bengasi) per andare a schiantarsi in Calabria a causa di «uno stato di progressiva perdita di coscienza da parte del pilota, attribuibile a fattori patologici non ulteriormente precisabili». Salvo poi scoprire dagli atti dell’inchiesta che quattro giorni prima del ritrovamento ufficiale il capo del Sios, generale Zeno Tascio (uno degli imputati di alto tradimento), aveva già annotato sulla propria agenda la visita guidata al relitto del Mig sulla Sila da parte del capo della Cia a Roma, Duane Clarridge, e dei suoi. Cosa che lo spione americano ha poi confermato in due interrogatori formali.
Davvero si respira aria nuova al vertice dell’aeronautica, signor presidente? Davvero sono cambiati i comportamenti e da tempo c’è piena collaborazione con l’autorità giudiziaria, come sostiene il ministro della Difesa Andreatta? Davvero possiamo star tranquilli anche se, come ricorda indignata Daria Bonfietti, non molti anni fa un sottosegretario alla presidenza del Consiglio (Giuliano Amato) disse che i tre alti ufficiali da lui convocati per avere informazioni sulla strage – Arpino era uno di questi – gli avevano raccontato un sacco di cose inesatte se non delle vere e proprie bugie? Davvero possiamo consolarci nel leggere (pagina 624) che, secondo le indagini, è ormai chiaro che il Mig libico cadde prima del giorno indicato da Ferracuti – forse proprio la sera della strage – ma «le errate conclusioni della Commissione non si ritiene possano essere ascritte alla malafede dei suoi componenti»?

Ci sono decine di ufficiali e sottufficiali dell’aeronautica, incriminati per favoreggiamento o falsa testimonianza nel corso di questa difficile inchiesta per strage, che adesso torneranno alle loro scrivanie e ai loro (nostri) radar non perché prosciolti ma in virtù della prescrizione dei reati contestati. Ci sono ufficiali che, grazie ad una singolare interpretazione del diritto da parte del ministero della Difesa e del vertice dell’arma azzurra, nel corso di questa difficile inchiesta hanno indifferentemente ricoperto prima il ruolo di periti del magistrato e poi quello di periti degli imputati-colleghi, magari confermando o contraddicendo le loro stesse conclusioni, e adesso torneranno allo Stato maggiore. Ma se l’immagina, signor presidente, il perito di un processo per omicidio, il quale prima esamina l’arma del delitto per conto del giudice e poi per conto dell’imputato? Se l’immagina il lavoro di questo perito costretto a confrontarsi allo specchio, una volta pagato dallo Stato (da noi, da lei…) e una volta al soldo del potenziale assassino?

Dopo quasi vent’anni, perché tacere sul fatto che questi periti con le stellette e un’autorizzazione del ministro della Difesa in tasca, cioè sospesi da funzione e ruolo per il tempo in cui avrebbero indossato la casacca dei consulenti di parte, furono visti arrivare a molte riunioni dei collegi tecnici su automobili targate aeronautica militare? Perché tacere sul fatto che mentre l’Associazione dei familiari delle vittime faticava a mettere insieme i soldi per fotocopiare oltre un milione e mezzo di atti, a quegli stessi periti con le stellette veniva consentito di assistere gli imputati utilizzando fax a spese dell’aeronautica (pagati da noi, pagati da lei…)? Che gioco è quel gioco di cui un solo partecipante conosce regole e meccanismo? Che senso ha avuto costringere la magistratura a diciannove anni di caccia ai dati del sistema radar della nostra difesa aerea, che però l’aeronautica e gli imputati dell’aeronautica conoscevano benissimo fin dall’inizio? E scoprire dalla Nato che fino all’ultimo quel pochissimo che ufficialmente era stato spiegato risultava al contrario semplicemente fasullo…

Quando sembrava che a Bruxelles volessero prendere in giro la magistratura italiana, promettendo e negando informazioni, questo suo governo, signor presidente, arrivò quasi a minacciare una crisi all’interno dell’Alleanza. Ci furono le sue telefonate e le lettere al segretario generale, Solana, ci furono le istruzioni alla nostra missione diplomatica da parte del vicepresidente del Consiglio, Walter Veltroni, perché la pressione di richiesta fosse continua e costante, ci fu infine la soddisfazione di scoprire che per alcuni alleati sarebbe stato oltremodo imbarazzante insistere con un atteggiamento di boicottaggio. E i dati, significativi anche se non completi, vennero fuori: la prova della presenza di almeno sei o sette caccia di nazionalità non identificabile in volo nei cieli del Tirreno la sera della strage, la convergenza di elementi (tracce radar di velivoli militari che originano dal mare) a conforto della sospetta presenza di una portaerei non identificabile in operazione, addirittura la possibilità di attribuire un codice a uno degli aerei che si infilarono sotto il DC9 per nascondersi al radar.

Con questi elementi di rilievo impressionante, l’inchiesta e le perizie fecero formidabili passi avanti. La ricostruzione ideale della foto della situazione nel cielo la notte della strage apparve di colpo più nitida. Peccato solo che i dati arrivarono pochi mesi fa, dopo diciotto anni di moscacieca, consumati ad ascoltare le spiegazioni ufficiali dell’aeronautica secondo cui nessun caccia era in volo e il DC9, acquistato dalle linee aeree hawaiane che lo utilizzavano per trasportare il pesce, aveva le strutture corrose dal sale. Si era rotto, insomma. Peccato, perché quelle preziose informazioni ottenute a Bruxelles erano nella disponibilità della nostra aeronautica sin dal momento dell’esplosione del DC9, nel 1980. Sta scritto nelle carte, non solo non ci fu collaborazione tra strutture militari e magistrati, ci fu depistaggio, distruzione di elementi di prova, furono stracciati i registri, modificate le date, cancellate le prove di un’emergenza che impegnò la nostra difesa aerea per una notte intera.

Ma i comportamenti non furono tutti omissivi. A singhiozzo, nel palazzo dell’arma azzura qualcuno decise di collaborare. Come definire altrimenti la decisione del generale Adelchi Pillinini, che nell’assumere l’incarico di capo di Stato maggiore ispeziona la cassaforte, ci trova dentro una busta di documenti sulla strage che i suoi predecessori avevano preferito dimenticare e personalmente la consegna al magistrato? Come mettere sullo stesso piano questa condotta lineare con l’atteggiamento di decine e decine di militari dell’aeronautica che, posti magari a confronto con le loro stesse voci registrate nelle basi radar la notte del 27 giugno 1980, fingono di non riconoscersi? Come mettere sullo stesso piano la decisione di Pillinini e le bugie raccontate da altri generali, colonnelli, capitani e marescialli su ciò che davvero accadde quella stessa notte nella base aerea di Grosseto, dove l’utilizzazione del codice d’allarme da parte di un nostro caccia intercettore che incrociò il DC9 poco prima dell’esplosione fu negata a oltranza dal­l’aeronautica per diciotto anni e infine confermata senza alcun dubbio dalla Nato?

Signor presidente, quella di Ustica è una strage anomala. In cui giocano una loro incomprensibile parte anche due alleati e un partner storico dell’Italia: Stati Uniti, Francia, Libia. E si tratta di una parte incomprensibile perché costellata di silenzi, reticenze, altre bugie. Come se intorno a questo tavolo a quattro (i quarti siamo noi), ciascuno avesse di che vergognarsi, dunque coprire. Pensi agli americani, signor presidente. Sono gli unici ad aver risposto a tutte le rogatorie e a sostenere, con risentimento, che la loro è stata collaborazione piena. Peccato solo siano convinti che piene e complete sarebbero anche risposte tipo quella spedita dalla Central intelligence agency al giudice istruttore Rosario Priore, a proposito del sopralluogo degli uomini Cia tra i resti del Mig.

Il telegramma ufficiale del Department of justice (13 dicembre 1996) dice così: «Con la presente rispondiamo alla sua lettera del 25/6/96 a cui era allegata una richiesta relativa ad un messaggio che Duane Clarridge avrebbe inviato al quartier generale della Cia intorno al 18/7/80 in relazione all’incontro che Clarridge avrebbe avuto con un ufficiale italiano. La Cia non è in grado di fornire alcuna risposta alla richiesta del giudice. A questo punto la richiesta è da considerarsi completamente evasa».

Questo il tono, questo il livello della collaborazione. Che non conosce il senso del ridicolo, a volte. Può infatti il più grande paese dell’informatica, dove tutto è computerizzato, schedato, ordinato al servizio della cronaca e della storia, raccontarci che, guarda caso, non trova più il file relativo al serbatoio supplementare di un caccia imbarcato su una portaerei, serbatoio sganciato certamente in emergenza e recuperato tra i rottami del DC9? Ma non è quello il paese dove sappiamo che le giovani stagiste della Casa Bianca usano conservare per anni persino i vestitini con le tracce delle loro avventure erotiche nello studio ovale? E il file del serbatoio no?

Dalla Francia sono pervenute risposte parziali o addirittura bugie, signor presidente. Ci hanno raccontato, piuttosto seccati, che la sera del 27 giugno 1980 la loro base di Solenzara in Corsica terminò di operare alle cinque del pomeriggio. Guardando i radar e ascoltando le testimonianze abbiamo invece scoperto che i caccia francesi continuarono a decollare e atterrare fin dopo le 21, cioè ben oltre il momento della strage. E che dire della Libia di Gheddafi, che non ha mai nemmeno accusato ricevuta delle nostre rogatorie? Ma che per bocca del Colonnello ci ha fatto sapere di conoscere tutta la verità su Ustica e i suoi retroscena? Possibile che ci siamo dannati (e giustamente) per trovare loro una via d’uscita al lungo embargo provocato dal caso Lockerbie ma non siamo riusciti a ottenere in cambio nemmeno una cartolina su Ustica?

Per concludere, signor presidente del Consiglio, se davvero lei e il suo governo avete intenzione di continuare a sfidare il muro di gomma su cui rimbalzano i quesiti essenziali di questa strage, non dimenticate per favore che una insopportabile linea d’ombra da diciannove anni copre l’intreccio dei depistaggi e delle complicità internazionali. E non dimenticate che dai marine, finiti nel buco nero del Cermis, una lezione di orgoglio e dignità ci è stata impartita dopo appena sei mesi. Oppure i depistatori di Ustica sono davvero i familiari di quegli 81 italiani in volo tra Bologna e Palermo, e i giornalisti che continuano a disturbare il manovratore?
Con molti ossequi.

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Foto: Ansa | Andrea Purgatori at Rome Film Fest 2022. Era ora Red Carpet. Rome (Italy), October 22nd, 2022



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