Il vaiolo delle scimmie e l’importanza delle parole

Oms e Regno Unito lanciano l’allarme sul vaiolo delle scimmie e descrivono una maggiore incidenza tra gay. Ma è davvero necessario? Non è meglio sottolineare i comportamenti a rischio?

Ingrid Colanicchia

Oms e Regno Unito hanno lanciato l’allarme sul vaiolo delle scimmie. E nel farlo hanno descritto una maggiore incidenza, al momento attuale, tra uomini gay. Sul sito del governo del Regno Unito, che per primo ha lanciato l’allarme, si può leggere: «L’Agenzia per la sicurezza sanitaria del Regno Unito (UKHSA) ha rilevato due nuovi casi di vaiolo delle scimmie, uno a Londra e uno nel sud-est dell’Inghilterra. Con questi il numero totale di casi confermati dal 6 maggio è di nove, con casi recenti prevalentemente tra gay, bisessuali o uomini che hanno rapporti sessuali con uomini (MSM). […]. Il virus si diffonde attraverso uno stretto contatto e l’UKHSA consiglia alle persone, in particolare a coloro che sono gay, bisessuali o MSM, di prestare attenzione a eventuali eruzioni cutanee o lesioni insolite su qualsiasi parte del loro corpo, in particolare i genitali, e di contattare un servizio di salute sessuale in caso di dubbi».

Anche se il sito del governo si limita a descrivere un fatto (una predominanza di casi, al momento attuale, tra uomini che fanno sesso con uomini) questo modo di porre la questione mi pare sollevi un problema e due rischi conseguenti, legati alla possibile ricezione di tale informazione, così come presentata, da parte dell’opinione pubblica.

Il problema è che si crea, seppur involontariamente, una associazione tra la malattia e una specifica “categoria” di persone piuttosto che tra la malattia e un determinato comportamento a rischio (come può essere una pratica sessuale che, se effettuata senza protezione, in quanto comportante scambi di liquidi biologici, può presentare maggiori rischi a livello di trasmissione di malattie; il sesso anale senza protezione, per esempio, è più rischioso della penetrazione vaginale senza protezione per la trasmissione di malattie ed è più rischioso in particolare per chi viene penetrato/a).

I due rischi di una simile associazione risiedono da un lato nel fatto che ciò può contribuire a stigmatizzare una determinata “categoria” di persone e dall’altro che ciò può indurre chi di quella “categoria” non fa parte (ma magari pratica quel comportamento a rischio) ad abbassare la guardia.

Si tratta di un copione che, con le dovute proporzioni, abbiamo già visto: erano gli anni Ottanta e la malattia in questione era l’Aids.

È certamente importante informare la popolazione su quali sono i gruppi più a rischio di una determinata infezione a causa di comportamenti comuni tra i loro membri, ma decisamente più efficace sarebbe informare il più precisamente possibile la popolazione su quali sono questi comportamenti a rischio piuttosto che puntare i riflettori su una “categoria” di persone.



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