Venti anni più uno: i movimenti per la pace dall’invasione dell’Iraq all’invasione dell’Ucraina

Nel 2003 si svolse la più grande manifestazione della storia umana in favore della Pace. Ma oggi possiamo dire che il movimento non è lo stesso di vent'anni fa e che non c'è un'idea chiara di che cosa si vuole dire quando si evoca la parola pace.

Giovanni Scotto

15 febbraio 2003

Vent’anni fa chi scrive partecipò alla più grande mobilitazione di massa della storia, la prima volta in cui scendere in piazza fu un gesto universale. In milioni manifestammo contro l’invasione statunitense dell’Iraq, retto da una dittatura disumana e aggressiva (e che in tempi più lontani dell’occidente era stata armata e foraggiata). Mi trovavo in un quartiere di quella che era stata Berlino Est; mi avviai a piedi verso l’Alexanderplatz, dove ci sarebbe stata la manifestazione, e mentre camminavo sul grande viale che portava alla piazza mi resi conto di decine, centinaia di persone che con me si dirigevano nello stesso luogo. E ricordai come poco più un ventennio prima, nel 1989, quelle strade e quelle piazze erano state teatro di proteste che letteralmente fecero epoca. Il crollo del muro di Berlino.

Oggi sono passati vent’anni da quel giorno. La seconda superpotenza mondiale, come allora titolò un citatissimo articolo del New York Times, non riuscì però a impedire il crimine di aggressione compiuto per responsabilità del presidente Bush Jr. e dai suoi alleati, creando la più grande catastrofe umanitaria causata dall’Occidente dai tempi del Vietnam. In Italia un nuovo simbolo pacifista si diffuse rapidamente, la bandiera della pace con i colori dell’arcobaleno. La campagna “Pace da tutti i balconi” ebbe grande successo e forse un milione di famiglie la esposero prima e durante l’invasione: le città cambiarono aspetto e si riempirono di bandiere colorate.

Febbraio 2023: un anno di guerra in Ucraina

Commemoriamo i vent’anni da quella straordinaria mobilitazione proprio nei giorni in cui l’aggressione della Russia in Ucraina “compie” un anno. E compie un anno anche la nuova mobilitazione di quello che viene chiamato il “popolo della pace”. Le bandiere arcobaleno sono tornate a sventolare dai balconi, a differenza di allora in numero assai minore. Soprattutto, però, oggi non è facile rispondere che cosa quelle bandiere simboleggiano.

Vent’anni fa la partita era chiara. La leadership dell’occidente decideva di invadere militarmente un paese che non poneva alcuna minaccia al di fuori dei suoi confini, anche perché piegato dalla sconfitta militare della prima guerra del Golfo, nel 1991, e dalle pesantissime sanzioni economiche del decennio successivo. Ai paesi che stavano preparando l’invasione, e di cui i governi europei erano amici ed alleati, chiedevamo semplicemente di fermare l’aggressione. Manifestare per la pace significava anche tutelare una giustizia minima nel sistema internazionale: gli stati non possono ricorrere impunemente alla forza e alle menzogne. Vent’anni fa il movimento globale per la pace aveva quindi una semplice richiesta politica, un destinatario chiaro delle proteste, il governo USA, e aveva la forza dei numeri dalla sua. Non è bastato a fermare la guerra e la catastrofe per una intera regione del mondo.

E oggi? La Russia ha invaso l’Ucraina dopo sette anni di guerra ibrida, parte sollevazione interna, parte invasione nascosta da parte di Mosca. Le repubbliche separatiste di Donetsk e Luhansk non sarebbero durate più di qualche mese senza il consistente sostegno militare russo.  Il 24 febbraio 2022, però, si è mosso un esercito di duecentocinquantamila uomini. L’invasione ha prodotto un flusso di rifugiati e sfollati interni come non si era più visto dalla Seconda guerra mondiale: quasi un abitante su tre. Ma le proteste contro la guerra in Italia non si sono indirizzate a Mosca se non in modo molto marginale: qualche sit-in dall’inizio della mobilitazione, e una manifestazione di gruppi di sinistra trotzkista a ottobre. Non c’è stata una convinta e unanime condanna dell’aggressione russa.

Il movimento ha invece in buona parte scelto una sorta di equiparazione tacita tra Russia e Ucraina, implicita nell’appello alla tregua tra i belligeranti. Leggo i volantini delle mobilitazioni di questi giorni: la parola “Russia” non compare neppure. Gli appelli in occasione delle principali mobilitazioni del movimento seguivano la logica che Lanfranco Caminiti ha battezzato “pensiero magico della pace”: basterà ripetere il suo nome con abbastanza frequenza e la Pace si materializzerà. La Pace diventa un concetto astratto, e nel movimento si ripetono continuamente le esortazioni a “scegliere la pace, non la guerra”, “la pace è vita, la guerra è morte” e così via. E come dare torto a queste affermazioni? Solo che questa non è una posizione politica.

La solidarietà alle vittime della guerra sembra essere menzionata come formula di rito, così come la frase molto spesso ascoltata “C’è un aggressore e un aggredito”. Ma una vera e convinta solidarietà con il paese invaso e il suo popolo non c’è stata. Chi ha qualche anno in più ricorderà la mobilitazione della società civile italiana in aiuto dei civili nella Bosnia dilaniata dalla guerra. Una parte alquanto consistente del movimento contro la guerra, poi, ritiene che i principali responsabili di quanto sta accadendo da un anno sul suolo ucraino siano la NATO e gli Stati Uniti. In questa ricostruzione l’Ucraina semplicemente scompare: si tratta di una guerra per procura, dove si fronteggiano NATO e Russia. In questo modo si salta a piè pari il problema di come difendere l’aggredito dall’aggressore. Peccato che questa ricostruzione non regga a un’analisi appena più approfondita del conflitto.

Ci sarebbe poi anche da riflettere sulla rabbia e il disprezzo che suscita in una buona parte dell’opinione pubblica il presidente ucraino Zelensky, tacciato di essere guerrafondaio e burattino, ma non è possibile farlo qui. Forse l’astio e il risentimento che leggo nelle dichiarazioni di leader di movimento, intellettuali e figure pubbliche deriva dal fatto che gli ucraini non hanno accettato il ruolo della vittima inerme, ma hanno impugnato le armi e hanno deciso di combattere? Un recente sondaggio dice che il 90% dei cittadini lotterebbe anche se i russi ottenessero una vittoria militare decisiva (da cui sono ben lontani). Magari che è questo che non ci piace: un popolo che lotta per la propria libertà, con alleati che non ci piacciono.

Quali sono oggi le richieste dei pacifisti alla politica? Il movimento – non solo naturalmente nella sua versione anti-atlantista, ma anche in quella del pacifismo “generico” o disarmista – ha rinunciato a mettere al centro della sua azione la condanna senza appello dell’aggressore e la solidarietà senza condizioni all’aggredito, e una buona parte delle energie della protesta si è incanalata verso il “no” alle forniture di armi all’Ucraina. Come è stato notato, l’alternativa all’invio di armi non è la pace, ma la situazione che implica il non inviarle. Senza armi, un paese invaso non può difendersi con efficacia. Certo, c’è la resistenza nonviolenta. Ma il paradosso è che solo una piccola parte dei movimenti mobilitati contro l’invio di armi proponevano il sostegno a forme di resistenza nonviolenta, o l’intervento nonviolento diretto.

Da diversi mesi la parola d’ordine delle mobilitazioni unitarie si incentra su due richieste: tregua subito e negoziato, o indizione di una conferenza di pace. Non sono chiare, tuttavia, ai proponenti le implicazioni della richiesta di tregua: come fare a non renderla un’occasione per consolidare il controllo dell’invasore russo e per consolidare l’esercito occupante messo a dura prova dai difensori? Sul negoziato e la conferenza di pace: a quali condizioni, sotto quali auspici, con quali obiettivi? La richiesta di tregua e negoziato rimane vaga e per questo non incisiva. Se confronto la situazione odierna con quella di vent’anni fa, mi sembra evidente che oggi ci sia una grande confusione nell’analisi così come nei riferimenti di valori: vogliamo la pace, ma che ne sarà della giustizia, della libertà? Inoltre c’è un’incapacità di passare dalle grandi enunciazioni valoriali a richieste politiche: cosa chiediamo ai nostri governanti. In molti, credo, coltiviamo l’illusione che siano USA e occidente a controllare le sorti del mondo, anche se sappiamo bene che ormai non è più così.

Non è possibile riportare le lancette alla mobilitazione del 15 febbraio 2003: troppo diverse sono le condizioni di partenza e la guerra contro la quale opporsi. Allora eravamo nel campo degli aggressori e cercavamo di fermare la mano dei nostri alleati: oggi siamo o dovremmo essere dalla parte degli aggrediti. Di cosa c’è bisogno, quindi, per un movimento per la pace all’altezza dei tempi? Anzitutto, credo, dobbiamo riconoscere il carattere tragico della situazione in cui siamo, dove non è scontato che i valori di pace, giustizia, libertà possano essere perseguiti insieme. Diffidare quindi delle semplificazioni, degli slogan che sembrano avere in tasca la soluzione (“tregua e conferenza di pace” è una richiesta che al peggio premia gli invasori).

Dobbiamo essere solidali con il popolo invaso, così come nei decenni lo siamo stati con altri popoli invasi. L’Ucraina non ha scelto la guerra, ha subìto un’aggressione. E non fa una guerra per procura, ma si difende da un invasore. Nell’anno che è passato, il popolo invaso si è difeso con successo, anche grazie al sostegno militare occidentale. Dobbiamo evitare di mettere sullo stesso piano, anche implicitamente, russi aggressori e ucraini che difendono casa propria. La nostra solidarietà non deve abbandonare gli ucraini perché vengono aiutati a difendersi da un sistema militare contro cui ci opponiamo. Piuttosto, essere solidali con l’Ucraina può significare anche richiesta rigorosa del rispetto del diritto internazionale umanitario, dei diritti umani, e nella preparazione oggi del processo di pace che verrà. Ad esempio, chiedendo ed operando per una efficace giustizia di transizione nelle città e regioni che verranno liberate, per i diritti degli obiettori di coscienza, per il reintegro nel paese non solo dei rifugiati in occidente ma anche di chi è riparato in Russia, e così via. Tutte azioni che possono essere incisive solo nella misura in cui siamo stati con chiarezza dalla parte degli aggrediti.

Forse c’è bisogno di recuperare alcuni aspetti del pensiero politico di Gandhi, una figura iconica la cui lezione ci permettiamo di ignorare (in Italia il filosofo Giuliano Pontara ha scritto pagina importanti sul suo pensiero). Nella prospettiva della nonviolenza gandhiana il conflitto non va evitato, e il male, l’oppressione e l’ingiustizia non vanno subiti: ma il conflitto si può agire  in linea di principio con strumenti diversi dalle armi, in una prospettiva che tiene insieme il rifiuto di collaborare con l’ingiustizia (disobbedienza civile) e lo scopo di persuadere, convertire e redimere l’avversario. Si tratta sempre di una scelta da fare in prima persona: non si può né delegare né costringere all’opzione nonviolenta. Gandhi non considera il mantenimento della pace a ogni costo come bene supremo. Possono quindi esserci in linea di principio situazioni in cui si è costretti a utilizzare la violenza diretta per diminuire un male più grande, per difendere un valore in pericolo. E se non si è in grado di agire in modo nonviolento, l’uso di metodi violenti nella difesa di valori fondamentali va preferito alla codardia e sottomissione (anche se Gandhi sottolinea che, nella sua esperienza, in nessun caso la lotta nonviolenta era impossibile).

È importante offrire sostegno e visibilità alle forme di difesa nonviolenta e resistenza civile, nei territori occupati dell’Ucraina, in Russia e Bielorussia. Secondo uno studio di Felip Daza Sierra, dell’Istituto catalano per la pace, in Ucraina vi sono stati 235 episodi di resistenza nonviolenta all’invasione russa tra febbraio e giugno del 2022. Queste azioni vanno conosciute, valorizzate e moltiplicate. In modo embrionale, da alcuni mesi esiste in Ucraina una presenza nonviolenza che cerca di diminuire l’impatto della guerra sui civili. Dall’Italia il progetto MEAN, la ong Un Ponte Per e l’OPerazione Colomba stanno lavorando in questo senso, così come da altri paesi Nonviolent Peaceforce o il Servizio civile di pace tedesco. Dobbiamo soprattutto costruire relazioni umanitarie, culturali e politiche con gli ucraini. Passata la guerra, per la ricostruzione ci vorranno anni, e per la necessaria riconciliazione con la Russia passeranno decenni. Questa è una lezione importante dei movimenti contro la guerra in Irak di 20 anni fa. Salvo pochi gruppi, non si riuscì allora a trasformare la mobilitazione di piazza in un’attenzione di lungo termine per il paese aggredito e la sua ricostruzione. Questa volta sarà importante puntare a una solidarietà di lungo termine.

Contribuire a un esito di pace e giustizia, ai diritti e alla libertà per tutti, passa per la sconfitta delle ambizioni imperiali russe. Oggi la preponderanza dei mezzi usati è quella militare, anche se sappiamo che potenzialmente ci sono anche gli strumenti della nonviolenza. Possiamo agire in modo tale da estendere gli “interstizi” che ci sono, le poche occasioni che si presentano. Nel mondo del futuro non ci può essere spazio per guerre di invasione. Dopo la fine di questa guerra, andrà ricostruita la possibilità di convivenza tra persone e popoli che l’invasione ha spazzato via. Noi dobbiamo darci il compito difficilissimo di immaginare e costruire un mondo senza invasori, rifiutando i sistemi di guerra, con lo scopo di garantire pace, giustizia e libertà per tutti.

 

Foto Pixabay | dimitrisvetsikas1969 



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