Gheno: “Lo schwa è un esperimento. E sperimentare con la lingua non è vietato”

Le proposte per un uso inclusivo della lingua italiana suscitano sempre aspre polemiche sui social. Ma che significato hanno proposte come l’uso dello schwa al posto del maschile sovraesteso? Come evolve una lingua? Si possono “imporre” cambiamenti? Ne parliamo con la sociolinguista Vera Gheno.

Cinzia Sciuto

In un recente post sui suoi canali social il comune di Castelfranco Emilia ha annunciato che da adesso in avanti userà lo schwa (ə) al posto del maschile sovraesteso. Una scelta spiegata con queste parole: “Il linguaggio non è solo uno strumento per comunicare, ma anche per plasmare il modo in cui pensiamo, agiamo e viviamo le relazioni. Ecco perché abbiamo deciso di adottare un linguaggio più inclusivo: al maschile universale (“tutti”) sostituiremo la schwa (“tuttə”), una desinenza neutra”. Una scelta che ha scatenato molte reazioni sui social e che è stata oggetto anche di un commento critico da parte del direttore di MicroMega Paolo Flores d’Arcais, che la definisce una “ennesima idiozia spacciata per progressista”. Ne parliamo con Vera Gheno, sociolinguista dell’Università di Firenze, che è considerata un po’ l’inventrice di questa proposta.

 

Vera Gheno, come giudica la scelta del Comune di Castelfranco Emilia?
Mi sembra una scelta interessante, soprattutto perché ristretta all’ambito della comunicazione social, che è un contesto che si presta alle sperimentazioni. Perché di questo si tratta: un esperimento linguistico. E mi piacerebbe che esperimenti di questo tipo fossero l’occasione per discutere delle ragioni che ci stanno dietro, senza inutili polarizzazioni e irrigidimenti né da una parte da una parte né dall’altra.

Una delle critiche a questa scelta è che la lingua non si cambia con imposizioni dall’alto: cosa risponde?
In questa discussione ci sono tanti argomenti fantoccio. Quello di una fantomatica “imposizione dall’alto” è uno di questi. Non mi risulta che il comune di Castelfranco Emilia abbia emesso un’ordinanza per imporre a tutti i suoi cittadini l’uso dello schwa. E questa proposta non è nata nella mente solitaria di qualche linguista annoiata chiusa nella sua Torre d’Avorio per “imporre dall’alto” le sue fisime. Al contrario: la prima volta che mi è venuta in mente l’idea dello schwa (che poi ho scoperto essere una proposta che già circolava, per cui in verità non ho inventato proprio nulla) è stato in risposta a una persona che mi ha espresso il suo disagio nell’uso del maschile e del femminile a cui l’italiano la costringeva. Questa persona non si sentiva a suo agio perché non pensava a se stessa né come maschio né come femmina. Altro che imposizione dall’alto: questi ragionamenti vengono da esigenze espresse dal basso. Da linguista mi sono sempre occupata dei fenomeni di confine, mi sono sempre affacciata proprio lì dove la lingua cambia, si modifica – il gergo giovanile, il gergo della trap eccetera – le sperimentazioni non mi spaventano. Ho iniziato a studiare le soluzioni che erano già in uso – l’asterisco, la chiocciola, la x eccetera – che hanno tutte un forte limite: si possono scrivere, ma non si possono pronunciare. Da qui l’idea di iniziare a sperimentare lo schwa.

Che però è un suono che in italiano non esiste.
È parzialmente vero, nel senso che è vero che non esiste nell’italiano standard ma è un suono che spesso usiamo inconsapevolmente (per esempio quando in una frase c’è una parola tronca) e che esiste in moltissimi dialetti italiani (la “e” di “curre curre guagliò’” in napoletano è esattamente uno schwa), per cui non è un suono completamente estraneo al nostro apparato fonetico. In ogni caso, questo non è un argomento ostativo. Nelle lingue succedono tante cose: possono perdere suoni o lettere o acquisirne di nuovi. Tutto dipende semplicemente dall’uso che ne fanno i parlanti.

Lei si occupa molto anche dell’uso del femminile in particolare dei termini che indicano professioni, un tema su cui ha scritto il libro Femminili singolari. Non teme che, dopo aver fatto tanto per sdoganare l’uso del femminile in molti contesti in cui il maschile la fa da padrone, questa idea di sostituire tutto con un neutro schwa possa far tornare le donne nell’invisibilità?
Questo è un altro argomento fantoccio. Qui nessuno sta proponendo di sostituire il femminile con lo schwa. Nessuna donna dovrà rinunciare al suo appellativo femminile. Lo schwa fa un’unica cosa: sostituisce il maschile sovraesteso quando ci si rivolge a una moltitudine mista e indefinita.

Ma cos’ha che non va il maschile sovraesteso? D’accordo, sarà anche l’esito di una storia dominata dal maschile, ma insomma ormai è dato per assodato che quando la nostra Costituzione, per fare un esempio, dice che “tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge” non si riferisce solo ai maschi, no?
Quello che non mi torna di questo ragionamento è quell’“ormai”, che dà per pacifica una questione che così pacifica non è. Della problematicità del maschile sovraesteso si parla almeno da una trentina d’anni, dalle Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana di Alma Sabatini del 1986. Lì lei offriva due soluzioni: quella di valutare, quando possibile, se la maggioranza delle persone a cui ci si rivolge è composta da uomini o da donne e usare rispettivamente il maschile o il femminile sovraesteso, oppure usare la doppia forma, quella che peraltro in molti contesti è usata quasi spontaneamente (“Buonasera signore e signori” eccetera). In ogni caso, che la nostra lingua – come molte per la verità – sia a matrice maschile non c’è dubbio e non solo nell’uso, ma persino nell’origine delle parole: il genere femminile dei nomi è quasi sempre un derivato da una radice maschile. Fin qui però siamo sul piano della mera descrizione dell’evoluzione della lingua fino a oggi. Tutto questo non ci dice nulla su come si evolverà la lingua nel futuro. Quello che sappiamo è che siamo di fronte a due inediti nella storia: il primo è che da qualche decennio in qua le donne hanno conquistato uno spazio che non avevano mai avuto prima. Non possiamo ancora parlare di piena parità, ma insomma, la strada è tracciata. E il secondo è che oggi iniziano a essere avanzate esigenze da parte di persone che non si riconoscono né nel femminile né nel maschile. Cosa ne sarà di queste richieste lo vedremo. A me, da sociolinguista, interessa indagare il fenomeno.

Insomma, i timori di un cambio della lingua dall’oggi al domani sono infondati?
Il problema è che questa discussione, che da anni si svolge in contesti precisi e delimitati di specialisti o di attivisti, oggi con i social è dilagata provocando insicurezze. È del tutto comprensibile che persone che non si sono mai occupate della questione, che non ne conoscono l’origine, la motivazione, l’evoluzione si sentano improvvisamente private delle proprie certezze: insomma, me lo hanno insegnato alle elementari che il maschile vale per tutti! Queste insicurezze diffuse vanno assolutamente tenute in considerazione, come anche – e questa è una delle mie più grosse remore all’uso dello schwa – le oggettive difficoltà di lettura che l’introduzione repentina di un nuovo simbolo comporterebbe per una consistente fetta di popolazione, penso non solo agli anziani ma soprattutto ai dislessici. Paradossalmente un’operazione mirante all’inclusività rischia di essere discriminante. Per questo io, per esempio, non uso lo schwa nei miei libri divulgativi ma soltanto in precisi contesti e per questo non suggerirei di introdurre oggi lo schwa o qualunque altro simbolo “eccentrico” nei documenti ufficiali eccetera. Siamo ancora nel terreno della sperimentazione, non esistono ancora regole condivise per esempio sulle concordanze, sull’uso dell’articolo e si rischia che escano fuori dei mostri. Finché la situazione sarà così incerta e magmatica è bene che rimanga in contesti sperimentali. La casa editrice Effequ per esempio lo ha introdotto nei saggi, che sono sempre molto militanti, ma non nei libri di narrativa: la trovo una strada interessante.

E se fosse un’insegnante segnerebbe come un errore l’uso dello schwa in un tema?
No, semmai cercherei di capire perché è stato usato. Se dei ragazzi usano lo schwa è evidente che si tratta una scelta in qualche maniera politica non di ignoranza. Allo stesso tempo però segnalerei loro che al di fuori della scuola, che essendo un contesto “protetto” si presta anche a essere un laboratorio linguistico, potrebbero incorrere in stigmatizzazioni e problemi di comunicazione. Insomma trasformerei la cosa in un’occasione per riflettere sull’uso della lingua e sui contesti nei quali la lingua opera, che non possono essere ignorati.

Insomma, lo schwa è innanzitutto un manifesto politico prima che una concreta proposta linguistica?
Al momento sicuramente sì. Se io apro un post su Fb scrivendo “Carə tuttə” sto segnalando una mia precisa posizione politica, sto dicendo fin dalla prima riga che mi pongo in una posizione di apertura e accoglienza nei confronti di esigenze di cui riconosco la legittimità. Non sto dicendo che è la soluzione definitiva né la sto imponendo a tutti. Io sono molto curiosa di vedere come si evolverà la nostra lingua da questo punto di vista da qui a cinquant’anni, nessuno può prevederlo né tantomeno imporre una o l’altra soluzione. In questo momento penso che sia interessante osservare il fenomeno, guardare tutte le proposte, sperimentare fino ai limiti della fantalinguistica. Quello che auspicherei è che tutto questo dibattito si svolgesse con serenità e pacatezza, senza anatemi reciproci.

Sul tema, leggi anche:

L’articolo che volevo scrivere ma che era già stato scritto

Lo schwa? Una toppa peggiore del buco

 



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