Verso il secondo Esame di Stato segnato dalla pandemia

Come restituire all’esame di maturità un’articolazione e una complessità tali da renderlo un momento importante dal punto di vista culturale ma anche emotivo?

Carlo Scognamiglio

Intorno all’ipotesi di eliminare il vecchio esame di maturità, cioè l’esame di Stato relativo al secondo ciclo di istruzione, si discute da un paio di decenni. I suoi detrattori ne stigmatizzano le inaffidabili valutazioni finali e la vacuità delle stesse per il mondo del lavoro o in vista della prosecuzione degli studi. In tale orizzonte, nell’ultimo quarto di secolo ne sono stati abbattuti i costi economici, superando definitivamente le trasferte dei commissari e – in certe fasi – riconducendo la composizione dell’intera commissione ai soli membri interni (con il presidente esterno, dunque, responsabile più della regolarità dei lavori che della rispondenza delle attività didattiche alle Indicazioni nazionali).

Su un piano di considerazioni meno estrinseco ma più pedagogico, in molti continuano invece a sottolinearne il valore formativo, quale esperienza di crescita personale, responsabilizzazione individuale ed esercizio propedeutico ai molti altri esami che la vita prospetta a ciascuno di noi. È vero che nella sua valenza sociale e certificativa l’esame di Stato è assai ridimensionato. Ne è una prova l’invadenza con la quale le facoltà universitarie a numero chiuso costringono le ragazze e i ragazzi a esercitarsi meccanicamente su simulatori di test a risposta chiusa fin da gennaio (se non prima), ridimensionando dunque lo spazio della “Maturità” nell’immaginario studentesco. Le prove INVALSI lavorano nella stessa direzione (con minore impatto sul secondo ciclo rispetto al primo, dove – nella verità dei fatti – sostituiscono di fatto l’esame delle “medie”).

Ma hanno davvero perso il loro valore formativo, queste prove d’esame? Dipende. E dipende soprattutto dal modo in cui quel che resta dell’istituzione scolastica riesce a dare a quel momento un significato e un’organizzazione che siano chiari, alti, sensati. Nessun rituale, dunque. Non ne abbiamo bisogno.

Le difficoltà derivate dalla crisi pandemica hanno già lo scorso anno determinato un forte ridimensionamento della prova finale, ricondotta a un singolo colloquio strutturato, interdisciplinare, gestito dalla sola commissione interna. Scelta comprensibile, perché in molte aree del Paese, e per numerosi studenti – individualmente – la didattica a distanza non era stata attivata, e i rischi di assembramento per le prove scritte, nonostante il calo dei contagi, era ancora assai temuto. Troppo traumatico l’impatto della prima ondata in Italia.

Legittimo tuttavia è domandarsi se anche per quest’anno la decisione di non svolgere prove scritte sia fondata, considerato che a giugno la gran parte del personale scolastico e dei cittadini fragili o molto anziani dovrebbe essere già vaccinata, che si tratta di un periodo in cui è facile garantire l’areazione dei locali, che se le scuole hanno potuto aprire in periodi invernali per il 50% dell’intera popolazione scolastica (nel primo ciclo per il 100%, fino a marzo 2021), non è chiaro per quale motivo non possano accedere a giugno le sole classi quinte. E si badi che per le intoccabili prove INVALSI il problema degli assembramenti non è stato neanche preso in considerazione, perché si sono regolarmente svolte in presenza (prima di questa temporanea chiusura), in un periodo sicuramente più difficile dal punto di vista della gestione della pandemia, rispetto al periodo estivo.

Invece l’ordinanza voluta dal ministro Patrizio Bianchi anche per quest’anno prevede il solo colloquio, legittimando quel calo d’attenzione su un’esperienza culturale ed esistenziale di cui – specialmente dopo oltre un anno di sacrifici intellettuali – sarebbe stato meglio non privare le giovani generazioni. In ogni caso, cerchiamo di capire meglio che tipo di esame è stato ipotizzato.

Entro il 30 aprile, cioè tra poco più di un mese, ciascun Consiglio di classe dovrà proporre a ogni studente un argomento da sviluppare, per la costruzione di un elaborato complesso, che dovrà poi essere completato e consegnato entro il 30 maggio, per diventare oggetto della prima parte del colloquio finale. Tale elaborato dovrà tenere conto del percorso svolto, cioè basarsi su contenuti disciplinari e competenze specifiche realmente assimilate o assimilabili nella didattica a intermittenza che gli studenti hanno dovuto svolgere tra la primavera del 2020 e quella del 2021. Attenzione: non ci riferisce ai contenuti di programma presentati dal docente, ma a ciò che gli studenti, nella loro singolarità, con i loro traumi e le difficoltà di connessione, possono aver realmente potuto apprendere. L’elaborato dovrà riguardare le cosiddette “discipline caratterizzanti”, che ad esempio nei licei classici rinviano alle lingue e civiltà greca e latina, nei licei scientifici all’asse fisico-matematico, e che ritrovavamo fino a due anni fa proposte in ciascun indirizzo di studi nella seconda prova scritta. Rispetto allo scorso anno, c’è una novità importante, e cioè che non saranno i docenti delle materie d’indirizzo a dover seguire tutti gli studenti nella produzione dell’elaborato. Invece, ciascun insegnante della classe dovrà farsi carico di guidare un gruppo di allievi. Questo è interessante e l’ordinanza sottolinea, a questo proposito, come l’elaborato – pur essendo incardinato sulle discipline caratterizzanti – debba avere un respiro più ampio, debba cioè essere in grado di connettersi ai contributi metodologici o contenutistici di altre materie e/o alle esperienze maturate nei PCTO (la vecchia alternanza scuola-lavoro). Prima di valutare gli altri aspetti del colloquio d’esame, bisogna dedicare all’elaborato qualche attenzione aggiuntiva.

Si tenga presente il forte abbattimento motivazionale – rispetto al vissuto scolastico – che la chiusura di marzo (ennesima) può aver prodotto negli studenti dell’ultimo anno. Psicologicamente proiettati già nel futuro, con un misto di aspettative liberatorie e paura dell’ignoto, per molti di loro preparare l’esame di maturità sarà soltanto l’ennesima seccatura, in un anno scolastico che – al di là delle buone intenzioni e degli sforzi di tutti – è stato segnato dalla malinconia. Allora bisogna assumere su di sé la responsabilità di un tentativo ulteriore di innovazione. Il ministero non ci riesce, abbiamo capito. Gli insegnanti dovranno lavorare ancora una volta da soli, dando un senso al vuoto. L’unico modo di riattivare nei prossimi tre mesi un po’ di tensione motivazionale, voglia di far bene e – perché no? – gusto della preparazione, è chiedere agli studenti di predisporre, come elaborato, qualcosa di molto complesso, possibilmente nuovo rispetto a ciò che hanno sviluppato nelle ordinarie verifiche intermedie: realizzare un tutorial tecnico-pratico (negli indirizzi professionali), un esperimento scientifico, un saggio per una rivista di settore, una disquisizione filologica, lo studio di un caso, una mostra virtuale, un itinerario turistico multimediale, una performance musicale di alto livello. Per ogni indirizzo di studi, dai professionali ai licei, è possibile predisporre le condizioni per lavorare intensamente, in quest’ultima parte dell’anno, alla produzione di un elaborato complesso, da discutere e presentare in sede d’esame, ma da portare con sé per tutta la vita, quanto meno come esperienza di lavoro. In questo senso, i docenti incaricati di seguire gli studenti in piccoli gruppi non avranno il compito di un controllo scientifico-disciplinare sull’elaborato, la cui responsabilità sarà tutta del candidato, e valutata dal docente esperto in sede d’esame (d’altro canto, anche nella seconda prova scritta la responsabilità di ciò che la penna annotava sul foglio, ricadeva tutto sul suo autore). Quei docenti che dovranno farsi carico di seguire gli allievi impegnati nella produzione dell’elaborato, dovranno offrire solo un supporto metodologico e motivazionale. Accompagnarli nel lavoro.

Il secondo e il terzo momento dell’esame di Stato assomigliano molto a quelli che abbiamo conosciuto un anno fa. Si dovrà analizzare e discutere prima un testo della letteratura italiana (per il quale si precisa nuovamente l’esigenza di riferirsi a ciò che realmente è stato possibile apprendere – nelle condizioni date – da ciascuno studente), e poi un documento strutturato, naturalmente aperto alla trattazione interdisciplinare (un grafico, un problema, uno scritto, o qualsiasi altro spunto che possa risultare in qualche modo già noto allo studente). Questo perché naturalmente occorre – seppur in modo poco meticoloso – verificare che i candidati abbiano “acquisito i contenuti e i metodi delle singole discipline”, sapendole “mettere in relazione” e argomentando “in modo personale, anche in lingua straniera”.

L’ultima fase del colloquio merita forse un’attenzione, che è anche un suggerimento, se possibile. Si prevede infatti che in essa si sia appreso ad “analizzare criticamente” l’esperienza dei PCTO, e che siano state maturate conoscenze e competenze nell’educazione civica. Difficile attraversare in così poco tempo tutti questi territori. Anche qui, agli studenti può essere suggerito di riflettere su uno degli aspetti delle esperienze di PCTO svolte nel triennio (pur tra mille difficoltà): preparare un’infografica o una presentazione per illustrare più che altro le ragioni della propria scelta, e agganciare in modo naturale un aspetto peculiare della nostra Costituzione, o più in generale a qualche approfondimento sviluppato nell’ambito dei percorsi di educazione civica avviati nell’ultimo anno scolastico.

In questo modo, potremo forse restituire all’Esame di stato un’articolazione e una complessità tali da renderlo comunque un momento importante, dal punto di vista culturale, ma anche emotivo. Nonostante tutto.

 

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