Presidenza della Repubblica: verso una democrazia postmoderna

Il percorso verso il superamento della Costituzione repubblicana è segnato e si intravvedono già i contorni della Repubblica presidenziale. Accuratamente nascosto sotto l’altezzoso sorriso Ancien Régime di Mario Draghi o magari sotto quello più rassicurante di qualche democristiano, c'è l'approdo a una democrazia postmoderna che si instradi sui binari di una forma flessibile di bonapartismo plebiscitario mediatico.

Stefano G. Azzarà

Dopo l’inevitabile sceneggiata con la quale in questi giorni, a partire da Silvio Berlusconi, tutti gli attori sul palcoscenico hanno cercato di alzare il proprio prezzo e riacquisire una centralità politica spendibile nel prossimo futuro, è probabile che questa settimana Mario Draghi venga eletto presidente della Repubblica, poco conta se alla prima o dopo la quarta votazione. Del resto, questa non sarebbe affatto una sorpresa: nonostante la suspense o la fumisteria creata più o meno ad arte dalle ambizioni personali di qualcuno, arrivato fuori tempo massimo, questo esito sarebbe esattamente quanto era risaputo sin dall’inizio, ovvero da quando l’ex presidente della Banca d’Italia e poi della BCE è stato nominato premier da una vasta coalizione di unità nazionale, dopo che Renzi aveva staccato la spina al governo PD-M5S. E, si può dire, sarebbe esattamente ciò per cui quella nomina era a suo tempo avvenuta e quanto il sistema industriale dei media – impegnatissimo h.24 a fare il tifo per lui e a spianargli la strada delegittimando ogni alternativa – ha sempre dato per scontato.

Non si tratta di una scelta irrilevante e da valutare nichilisticamente con senso di sufficienza, sia chiaro. I gruppi economici dominanti sono alle prese con il serissimo problema di una crisi organica della loro egemonia, che è logora e fa acqua da tutte le parti. E se vogliono recuperare quei pezzi di ceti medi e classi subalterne che si sono sottratti al loro controllo ideologico diretto durante la lunga fase della crisi economica e dell’impauperimento generalizzato, devono a ogni costo ricostruire almeno parzialmente il blocco sociale messo in discussione dalla rivolta populista (abilmente cavalcata dai settori outsider interni al medesimo mondo industrial-finanziario) e dargli un barlume di plausibilità e coesione. Ed è per questo che il perno di tale ricostruzione è stato da tempo individuato nella “via epistocratica”, teorizzata negli Stati Uniti da autori come Jones e Brennan e propagandata nel nostro paese, ad esempio, da Sabino Cassese. Si tratta del ripristino di un ordine improntato alla razionalità tecnocratica, una versione ultraliberale del governo degli Aristoi, dei migliori e più competenti. Dietro il quale, sia chiaro, non c’è nessun oscuro complotto ma l’oggettività delle cose e a garante del quale, affinché esso possa funzionare bene, deve però essere posizionato non un Mario Monti qualsiasi, come nel recente passato, ma un’autorità indiscussa e indiscutibile. Qualcuno che, per il capitale sapienziale accumulato nella conoscenza degli arcani dei dogmi teologici del denaro, rappresenti per tutti un vero e proprio sacerdote della religione capitalistica. Qualcuno la cui aura di sacralità e la cui onniscienza e onnipotenza siano inscalfibili, almeno nella favola mediatica, e buchino anche la melma dell’antintellettualismo populista. Mario Draghi, dunque, e non in quanto persona empirica ma in quanto figura cosmico-storica che rappresenta il punto di convergenza degli interessi prevalenti, che sono oggi quelli dell’alleanza competitiva tra i fragili poteri economici stabiliti nazionali e quelli (ben più potenti) transnazionali e cioè atlantici ed euroatlantici.

La scelta del prossimo Presidente è assai importante in questa prospettiva, che con Draghi troverebbe la strada spianata mentre con un Casini qualsiasi zoppicherebbe parecchio. In un paese che rimane comunque una semicolonia americana priva di reale autonomia politica, l’individuazione del Garante della Restaurazione – che sia il meritevole Draghi o qualunque altro personaggio gradito all’Imperatore che sta a Washington – è tuttavia secondaria di fronte a un altro problema che in questo delicato passaggio è in discussione. Un problema che ha caratteristiche più sistemiche e sconta tempi più lunghi e che mi sembra perciò più rilevante. La lotta di classe tattica interna ai dominanti di ciascun paese, e cioè tra le diverse frazioni del mondo grande-imprenditoriale – quelle legate al capitale globalizzato e quelle più arretrate e territoriali –, si inscrive infatti in una diversa e più ampia lotta di classe, globale e di natura strategica, che ha come posta in gioco non questo o quel nome, non il prevalere di questa o quella cordata, ma l’assetto complessivo del sistema politico-sociale euroatlantico. E che riguarda non un semplice cambio di fase momentaneo ma la natura stessa della democrazia liberale, oltre che la sua forma, per un periodo presumibilmente assai lungo.

Da tempo, almeno dalla metà degli anni Novanta, è urgente in Italia come nel resto d’Europa l’esigenza di una nuova architettura politica. Ossia di un nuovo assetto istituzionale e di un nuovo modello di governance che sia più in sintonia con quel potente riaggiustamento in chiave neoliberale dei rapporti di forza tra dominanti e dominati che ha reso obsoleta la vecchia e carissima democrazia moderna. E che cancelli ogni retaggio “democraticistico” di una fase ormai conclusa, nella quale questi rapporti di forza erano stati in parte resi più equilibrati dalla capacità di conflitto organizzato dei subalterni. Oggi, in un’epoca nella quale, per mancanza di avversari strategici, la lotta di classe avviene esclusivamente dall’alto e da parte dei ceti dirigenti – e nella quale le capacità di redistribuzione welfaristica del capitale sono ridotte quasi a zero per via della tremenda competizione globale – è evidente, infatti, che le mediazioni e le compensazioni tipiche della democrazia moderna, e cioè di quella breve parentesi tra la fine della Seconda guerra mondiale e la metà degli anni Novanta del XX secolo, sono oggettivamente divenute dei costi intollerabili. Ed è necessario elaborare un nuovo assetto che rifletta in maniera più compiutamente americana la vittoria schiacciante dei dominanti, sancendone la legittimità e persino la santità sociale. Tanto più che, come ha spiegato di recente anche Emiliano Brancaccio – e come da tempo va predicando tutto un filone di pensiero neoweberiano che da noi ha trovato espressione nel libro di Aresu sul capitalismo politico –, la crescente concentrazione dei capitali e l’inasprirsi della loro competizione geo-economica pretenderà per un bel pezzo forme più centralizzate e integrate di comando politico, al livello continentale ma anche nazionale.

Ciò che è davvero in gioco, perciò, accuratamente nascosto sotto l’altezzoso sorriso Ancien Régime di Mario Draghi o magari sotto quello più rassicurante di qualche democristiano, è un vero e proprio terremoto. È il punto d’approdo, che può arrivare domani o tra qualche anno, di un complicato e contraddittorio percorso di ricerca che spinge non già verso una “postdemocrazia” o un assetto simil-autoritario – per il liberalismo occidentale non è possibile rinunciare esplicitamente alla formula democratica – bensì verso una diversa forma di democrazia. Ovvero verso una democrazia postmoderna, che si instradi sui binari di una forma flessibile di bonapartismo plebiscitario mediatico.

Un bonapartismo che sarà capace di orientarsi in chiave epistocratica e tecnocratica, come appunto sta avvenendo in questa fase, nella quale gli spacciatori professionali salariati di Fake News, nei giornali o nelle TV, esaltano in ogni occasione la “competenza” e la reputazione internazionale necessarie per affrontare le grandi sfide che attendono il paese. Ma che sarà capace di orientarsi anche in senso più populista domani, quando le circostanze lo richiederanno – magari, in quel caso, andando dietro agli spacciatori più artigianali delle medesime Fake News, i quali ci parleranno a quel punto sui social di quanto è necessario che il leader parli il rozzo linguaggio del popolo o della plebe –, senza mutare di una virgola nella sua sostanza. E cioè nella sua natura di dominio padronale che ripristina in condizioni nuove le forme di comando e subordinazione proprie del XIX secolo e rilegittima le ferocissime forme di coscienza proprietarie e signorili del protoliberalismo. Un dominio che si fonda sul rapporto diretto tra il leader e le masse, in particolare, e che pretende dunque una totale disintermediazione che deve stroncare a monte ogni possibilità di organizzazione autonoma degli interessi più deboli. Passando per la totale sottomissione del Parlamento all’esecutivo, la definitiva cancellazione dei partiti di massa, la neutralizzazione di ogni minima attenzione verso il conflitto da parte dei sindacati generali e mille altre strade.

Di fronte a questa posta in gioco, che riguarda il divorzio definitivo tra liberalismo e democrazia moderna e richiede soluzioni di lunga durata, le classi dirigenti italiane e occidentali dimostreranno presto quanto effettivamente contino per i liberali quei formalismi il cui mancato rispetto viene sempre ipocritamente rimproverato agli altri, ossia ai paesi diffamati in quanto “autoritari”, come un sacrilegio nei confronti della democrazia. Il percorso verso il superamento della Costituzione repubblicana è segnato e si intravvedono già i contorni della Repubblica presidenziale, o di qualcosa di simile, per quanto tempo ci vorrà. E, del resto, qualcuno ha già messo le mani avanti e ha ricordato come anche De Gasperi abbia svolto simultaneamente le funzioni di Presidente del Consiglio e Presidente della Repubblica, sebbene per pochissimi giorni (13-28 giugno 1946), prima di passare le funzioni a De Nicola.

Con tutta questa agitazione da parte dei dominanti – sia detto per inciso e per quel che vale – ­nessun segno di vita e nessun vagito di risveglio, purtroppo, presso i subalterni.

Sempre più alla coda, perché sempre più divisi e dunque incapaci ormai di riconoscere anche la propria condizione materiale, figuriamoci di darsi un’autonomia, una forma di coscienza, un progetto e un’organizzazione politica. E, privi di qualunque strumento culturale e informativo, sempre più immersi nello spettacolo che i padroni ammanniscono loro, come un perpetuo Talent Show che scorre sulla timeline dei social network o in tv. E al quale tutti prestiamo ormai uno sguardo persino distratto e ironico, visto che in ogni caso non c’è più niente da fare e qualunque cosa ne pensassimo o facessimo cambierebbe ben poco.

Forse è questo, e cioè questa disperante frantumazione che nei trent’anni alle nostre spalle ha schiantato in mille solitudini ciò che un tempo era il potentissimo movimento dei lavoratori, il problema principale, al di là dei Draghi o dei Casini. Quello – l’unico – sul quale, invece di andare a caccia di farfalle o partecipare alla gara di chi propone il nome più improbabile dando sfogo alla propria impotenza, dovrebbe concentrarsi chi intende ricostruire, un giorno, forse, chissà, le condizioni di una democrazia nuovamente moderna e progressiva.

 

(immagine di Edoardo Baraldi)



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