Violenza contro le donne, come combatterla?

Dalla famiglia alla scuola, passando per le forze dell'ordine e la comunità dei pari: tutti devono fare la loro parte per distruggere il sistema che alimenta la violenza contro le donne.

Marilù Oliva

Cosa sta accadendo? Sembra che all’improvviso ci domandiamo come arginare quest’ondata di violenza che sta colpendo donne e ragazze. Perché ci stiamo rendendo conto che, se molti si sono dimenticati le migliaia di donne uccise negli anni passati, il sorriso di Giulia Cecchettin non ci abbandona, la sua orribile fine si erge a tetro monito che a breve capiterà un altro femminicidio. Lo sappiamo, ne siamo certe. Non è cambiato nulla da dieci anni a questa parte, nonostante le conferenze, i progetti, le discussioni. E allora perché non scendiamo in piazza e ci stiamo finché non vengono esaudite le nostre richieste?
La questione è complessa, ma esistono delle soluzioni. In realtà molte di noi ne parlano da tempo e, pur senza la pretesa che i percorsi tracciati possano presto raggiungere un obiettivo che in questo momento di sconforto ci sembra lontanissimo, tuttavia abbiamo individuato dei capisaldi imprescindibili. Perché le cose devono cambiare: rassegnarsi significa siglare un nuovo consenso di fronte alle prossime condanne a morte. Ecco i diversi punti che propongo, sui quali si potrebbe lavorare.

 

L’ambiente in cui si cresce
La famiglia. Il gruppo dei pari. Le stimolazioni che si ricevono. Questa triade costituisce un mix che potrebbe rivelarsi tossico, se non supportato da sane interferenze. Molte ragazze e ragazzi, oggi, sono spaesati, fragili, senza punti di riferimento. La psicologia ci dice che ultimamente sono aumentati alcuni disturbi psicopatologici, in particolare i quelli dell’umore, d’ansia, del comportamento alimentare e disturbi dovuti ad abuso di sostanze. Le difficoltà non sono certo alleggerite dall’instabilità sociale che si amplia anche alle relazioni affettive, così labili ed evanescenti. Ma le famiglie sono in grado di sensibilizzare ed educare i giovani a sviluppare una sana affettività, oltre a competenze comportamentali e relazionali? Dipende. Accanto a famiglie sane, ce ne sono altre troppo permissive o tendenti a viziare oltremisura (magari per compensare la propria assenza educativa) le quali, senza sospettarlo, creano dei futuri narcisisti pronti a sacrificare ogni cosa sull’altare del proprio ego. Ci sono famiglie che non insegnano l’empatia e promuovono la politica del successo ad ogni costo, incentivando la formazione di piccoli presuntuosi che non sopportano di non primeggiare e che, pur di avere la meglio sugli altri, sono disposti a calpestare qualunque principio, perché questo è il modello che hanno introiettato: essere vincenti in un mondo dove soldi, supremazia e successo hanno la meglio.

Il gruppo dei pari è fondamentale nella formazione e, con esso, i messaggi che arrivano dall’esterno. Se negli anni Ottanta ci preoccupavamo del condizionamento televisivo, ora prendiamo invece sottogamba l’influenza di internet e delle nuove tecnologie. Forse il mondo virtuale andrebbe monitorato. Ma non solo quello: fin da piccoli, i bimbi – non tutti, ma parecchi – sono abbandonati ore e ore davanti a videogiochi costruiti e progettati attorno all’idea della distruzione: occorre far fuori qualcuno. In alcune realtà (Brawl Stars, ad esempio), l’obiettivo di uccidere gli altri non solo aumenta il punteggio, ma viene perseguito anche a scapito di occasionali alleati, che possono a loro volta essere uccisi a tradimento. Sembra un dettaglio sciocco, in realtà è importante, perché nella mente del piccolo giocatore si consoliderà l’idea che si deve essere pronti a tutto pur di acquisire dei punti in più. È vero che qui parliamo di ammazzamenti virtuali, però la vita viene trattata come un gioco, i corpi (con le loro esistenze) perdono valore, divengono veicolo per accumulare punteggio e mi domando: come si introietta tutto questo nel cervello di un soggetto in età evolutiva abituato a “uccidere” come se non ci fosse un domani? L’accostamento con quest’abitudine a disfarsi dell’altro mi è venuta d’istinto a proposito di un’altra Giulia, di cognome Tramontano, quando ho letto di come il padre del bimbo che portava in pancia, dopo averla uccisa, ha cercato di eliminare la salma secondo modalità tipiche del videoplayer, quasi convinto che un corpo potesse davvero sparire. Ha dato così via a goffi tentativi di smaltimento del cadavere col fuoco e l’ha spostato da un luogo all’altro quasi fosse un sacco di patate. Questa sovrapposizione tra la finzione e la realtà mi spaventa molto, così come il nulla totale che sta alla base delle suddette azioni. L’indifferenza per l’altro, l’ossessione nel perseguire il proprio scopo, il tornaconto (economico o sessuale) che prevarica la vita umana: i basilari per non diventare degli esseri privi di scrupoli, di emozioni sane, di empatia si imparano in casa, fin da piccoli. Così come in famiglia si dovrebbe apprendere il rispetto per la donna e non da lezioni didascaliche, ma dall’esempio: come i genitori si relazionano, come si comportano verso le femmine e verso i maschi, quali princìpi trasmettono. È totalmente colpa dei genitori se qualcosa non funziona e vengono fuori dei delinquenti? Non lo so, non ho le competenze per dirlo. Alcuni casi di serial killer americani fanno riflettere. Ad esempio, Jeffrey Dahmer ha sollevato la sua famiglia da qualsiasi responsabilità in merito al suo percorso omicidiario. Ma possiamo fidarci delle dichiarazioni di chi con faccia d’angelo invitava a casa propria le sue vittime per zombizzarle, abusarne e sezionarle?

Se escludiamo la presenza di patologie conclamate, io credo che la famiglia e l’ambiente siano un tassello fondante nella formazione emotiva di ogni individuo. Quindi aiutiamo i genitori in difficoltà (o incapaci di sostenere quel ruolo), promuoviamo una cultura della solidarietà, del rispetto, della legalità, della pace. Sosteniamo la gente che non compete ma si aiuta, che non primeggia ma collabora, che non punta sui soldi ma sulla felicità, che ha cura non solo del proprio orticello ma anche dell’ambiente, degli animali, del mondo. Non premiamo solo e sempre chi arriva primo, chi è più bello, chi è più veloce, chi è più blasonato, ma dispieghiamo le energie a sostenere chi ha bisogno.

Il potenziale della scuola
Non è colpa della scuola se avvengono i femminicidi, perché si dimentica che il primo imprinting non è dato dalla scuola e anche perché da molti essa viene considerata come un luogo di sosta obbligato, che talvolta gli stessi genitori svuotano di autorevolezza. Parliamo di una scuola che non subisce da decenni riforme significative (includo nell’insignificanza anche la riforma Moratti), di una scuola che sopravvive grazie a docenti il cui ruolo è quasi totalmente svilito e depauperato da momenti compilativi, giustificativi, stressanti.

Proprio qualche giorno fa, in occasione di un incontro in cui veniva illustrato l’ennesimo provvedimento che tende a rendere noi insegnanti sempre più burocrati e a farci disperdere le energie tra impegni di tutorato e moduli di ore-extra dei quali la stragrande maggioranza del corpo docente non afferra molto il senso, mi domandavo: ma perché anziché farci perdere tutto questo tempo non lo impiegano per formarci e prepararci di fronte alle deriva psicologica, emotiva, empatica che sembra attanagliare i giovani? Non bastano fugaci progetti alla giornata, ma una formazione seria e propositiva. Perché non si creano delle figure di riferimento ad hoc per i disagi? E non mi riferisco a quella degli psicologi, che evidentemente non è sufficiente. Come avevo già proposto nell’Almanacco della Scuola MicroMega del 2019, perché non si introduce un’ora nei programmi scolastici che includa corsi di educazione al sé, all’altro, educazione stradale, progetti di prevenzione degli incidenti, delle droghe, progetti contro la violenza, per la parità di genere, per l’inclusione, per il rispetto ecc.? Magari con corsi di difesa personale per le ragazze, in cui vengano elencati i segnali d’allarme e insegnata la fiducia in sé nonché l’abitudine a scappare via a gambe levate ai primi indizi di relazioni tossiche. E soprattutto un corso di gestione delle emozioni per i ragazzi, di educazione alla libertà, allo smantellamento della cultura del possesso. Perché non si è ancora realizzato tutto questo, sebbene la cronaca ci urli un giorno sì e due no quanto sia necessario? Mancano i fondi? Bene, si potrebbe dirottare su questa proposta l’ora di religione, peraltro in molte realtà già disertata.
Sarebbe inoltre utilissimo, nel mondo dell’istruzione (scuola e università) l’attivazione di sportelli di ascolto psicologico cui potrebbero rivolgersi non solo i soggetti considerati fragili o a rischio, ma l’intera popolazione studentesca, per incentivare l’idea che il confronto possa essere benefico per tutti.
La scuola quindi non è responsabile di ciò che sta accadendo, ma potrebbe contribuire a migliorare la situazione, aumentando la consapevolezza, la cura del sé e dell’altro, la cultura del rispetto: ma che questo potenziale diventi realtà dipende dal Ministero e, fino ad oggi, nessuno dei governi che si sono succeduti è intervenuto in maniera definitiva in tal senso.

Le altre istituzioni
Non serve a nulla chiudere i criminali in prigione e buttare via le chiavi (soluzione che peraltro è ben lontana da quelle cui arriva il nostro sistema giudiziario!), non serve perché possiamo isolare e controllare un criminale, ma ne arriveranno altri. Vicini di casa, fidanzati, abusanti vari. Accanto ai soggetti prevedibili ci sono maree di insospettabili, vestiti da bravi ragazzi, con un curriculum impeccabile. Puntare il dito contro il mostro è controproducente, oltre che inutile. Perché il mostro è il prodotto di diversi fattori che, intanto, proseguono il loro maleficio.

Serve più assistenza, più ascolto, una rete infrangibile di solidarietà. Le forze dell’ordine – che in questi anni si sono preparate – dovrebbero avere più strumenti ed essere ulteriormente sensibilizzate. Occorrono misure urgenti e serie, che vanno dall’utilizzo del braccialetto elettronico con intervento immediato delle forze dell’ordine qualora il divieto di avvicinamento venisse infranto, allo snellimento delle procedure della giustizia, al coordinamento tra le varie forze dispiegate al sostegno (anche economico) alle associazioni a tutela delle donne e i centri antiviolenza. Le donne minacciate vanno credute, accolte, e non vanno lasciate sole. Perché lasciarle sole equivale a condannarle a una trappola funesta.

 

La mentalità
Come dicevo sopra, il discorso è complesso e io mi sono limitata ad analizzarne una parte, ma non si arriverà da nessuna parte se non si cerca di cambiare una mentalità fortemente condizionata dall’eredità patriarcale. Da lì parte tutto. Si tratta di un lascito i cui tentacoli si estendono ovunque: dal dislivello occupazionale alla reificazione del corpo femminile, dalla svalutazione al gender gap e così via. Bisogna educare, insegnare la parità e per farlo occorre partire anche dai dettagli: come osserviamo, come percepiamo, come giudichiamo, come nominiamo le cose. Togliere il tesserino da giornalista a chi scrive senza criterio titoli ambigui e destabilizzanti o utilizza formule che incitano alla colpevolizzazione delle vittime, ma anche mettere a tacere quei personaggi pubblici o quei politici che incentivano all’odio verso le donne.

Oggi in Italia una donna vale meno di un uomo e basta poco per accorgersene. La sua vita vale di meno, i suoi sogni valgono di meno, la sua professionalità viene ancora troppo spesso considerata al di sotto, in confronto ai colleghi maschi. Le donne vengono uccise per moventi che agli uomini non toccano come vittime (se non in casi rarissimi che non fanno testo). Le donne devono giustificarsi se subiscono violenza e non sempre le loro versioni vengono credute.

La cultura patriarcale favorisce i maschi in una maniera ottusa e prevaricatrice. Ma, come ha dichiarato Elena Cecchettin, la sorella di Giulia: “Nessun uomo è buono se non fa nulla per smantellare la società che li privilegia tanto. È responsabilità degli uomini in questa società patriarcale dato il loro privilegio e il loro potere, educare e richiamare amici e colleghi non appena sentano il minimo accenno di violenza sessista. Ditelo a quell’amico che controlla la propria ragazza, ditelo a quel collega che fa catcalling alle passanti, rendetevi ostili a comportamenti del genere accettati dalla società, che non sono altro che il preludio del femminicidio”.

Eppure il problema non è solo dei maschi. Il problema è sociale e totale, perché diverse donne non lo riconoscono, anch’esse obnubilate dalla cultura maschilista che ci accompagna da millenni. Ma per cambiare la cultura occorre tanto tempo: quante ne vedremo cadere ancora? Tante, troppe. Nostre amiche, nostre sorelle, nostre figlie o anche semplici sconosciute per cui ci attanaglierà ugualmente un nodo alla gola. Per questo è importante che interveniamo subito, scuotendo un sistema malsano dalle fondamenta, con una presa di consapevolezza, con decisione, tenendoci per mano, decise e implacabili, fino a che non si placherà questa tremenda strage. Tutte e tutti insieme per smantellare, bruciare, distruggere questa impalcatura arrugginita e malefica che ci impedisce di essere veramente libere.

CREDITI FOTO: Manifestazione della rete nazionale Non Una di Meno contro femminicidi e violenze di genere in piazza Castello, Torino, 1 luglio 2021. ANSA/TINO ROMANO

 

 



Ti è piaciuto questo articolo?

Per continuare a offrirti contenuti di qualità MicroMega ha bisogno del tuo sostegno: DONA ORA.

Altri articoli di Marilù Oliva

“In Provincia”, di Michele Brambilla, è un breve ma denso viaggio all’interno delle sfaccettature che compongono le identità dell’Italia.

“Tra le rose e le viole” di Porpora Marcasciano ricostruisce la storia del mondo trans in Italia, in maniera sincera, diretta e piena di vita.

“Non sono mai stata il mio tipo” è il cammino autobiografico di Irmgard Keun, scrittrice tedesca anticonformista e dissidente ai tempi del nazismo.

Altri articoli di Società

L’impatto sociale dell’Intelligenza artificiale non è paragonabile a quello avuto da altre grandi innovazioni tecnologiche.

"I ragazzi della Clarée", ultimo libro di Raphaël Krafft, ci racconta una rotta migratoria ancora poco indagata, almeno nei suoi aspetti più umani.

Il diritto all’oblio è sacrosanto, ma l’abuso che gli indagati per mafia ne è pericoloso.