Violenze in Francia, basta con la retorica della rabbia

Ci troviamo di fronte a una forte e persistente crisi performativa dei movimenti: quando si cede alla facile giustificazione della rabbia per sfasciare ogni cosa sul proprio cammino (e si minimizza, da parte di chi guarda, la portata del gesto distruttore) vuol dire che si rinuncia alla creatività, alla fantasia, all’empatia, allo studio e alla ricerca di strade alternative di comunicazione e di consenso delle proprie ragioni.

Monica Lanfranco

Il nome di Toya Graham non evocherà alcun ricordo nella maggioranza, ma si tratta di una donna che a suo modo ha fatto la differenza: sono da molto tempo convinta che il mondo abbia bisogno di donne (e in generale di persone) così.
Donne che, pur vivendo condizioni quotidiane di fatica, ingiustizia e pericolo trasformano la rabbia, ampiamente motivata, in costruttività, educazione e solidarietà.
Di lei sappiamo grazie ad un video girato durante la manifestazione a Baltimora (Usa), del maggio 2015, degenerata in violenza, indetta per l’ennesima uccisione di un giovane nero da parte della polizia.
Toya, madre di sei figlie e di un ragazzo, già nonna, è a casa e segue la tv. Riconosce il figlio Micheal, sedici anni, che tira mattoni vestito di nero e incappucciato. Si veste, esce di corsa, lo raggiunge, lo prende per le orecchie, lo spinge fuori dalla strada, gli tira due ceffoni quando il ragazzo accenna a tornare sui suoi passi.

Alla stampa dichiarerà: “Lo proteggo, non me lo faccio uccidere”. Toya sa benissimo di cosa parla: lavora in un centro per il recupero dalla tossicodipendenza. Violenza, droga e delinquenza sono gli approdi di molti giovani neri a Baltimora, e lei, descritta dalle colleghe come estroversa e volitiva, vuole dare una lezione a quel ragazzo che ama.
La buona politica, che stentiamo a definire e spesso anche a costruire, è anche, soprattutto, questo. Solida, curativa, generativa protezione e, se e quando ci vuole, anche correttiva azione materna.
Toya non è la prima: nel 2006 un gruppo di donne, molte delle quali madri, sorelle e compagne dei giovani immigrati che stavano dando alle fiamme le banlieu di Parigi (come accade in questi giorni) scrissero una lettera pubblica contro quella violenza, affermando che distruggere auto, scuole, negozi nei loro quartieri significava danneggiare, imbruttire e violare il bene comune, lo spazio pubblico dove viveva la loro comunità. Molte delle donne impegnate nel fermare la devastazione dei quartieri periferici da parte dei giovani erano le attiviste femministe di Ni Putes Ni Soumises, associazione nata nel 2003 contro la radicalizzazione islamista nelle banlieu: l’anno prima una minorenne magrebina era stata bruciata viva dal fidanzato che non voleva che lei si vestisse come una ‘occidentale’.

Purtroppo oggi, nella tragica e preoccupante escalation violenza che sta divampando in Francia a causa dell’assassinio da parte di un poliziotto del giovane Nahel non si ha notizia di azioni simili, mentre tra i rischi della degenerazione delle violenze c’è anche l’egemonizzazione della rivolta da parte dell’Islam fondamentalista.
Nel 2001, un mese prima del G8 a Genova, un gruppo di donne con diverse esperienze politiche e di movimento scrissero insieme un documento rivolto ai compagni che teorizzavano la bontà e liceità della violenza ‘rivoluzionaria’, affermando che mimare la brutalità del potere in nome di un (presunto) ideale di cambiamento è solo mimesi, non cambiamento.
Fu allora che, per la prima volta fu nominata la pornografia in connessione con la globalizzazione: la globalizzazione neoliberista, si disse, riduce l’umano a una sola dimensione, quella di consumatore (chi può), e chi non può è destinato a soccombere, giacché l’unico spazio possibile è quello del mercato. O compri o scompari.

Se, quindi, il rischio è quello che il mercato diventi l’unico metro regolatore delle relazioni, il salto semantico è con la pornografia, lo spazio nel quale si enfatizza la sessualità genitale, eiaculatoria, spesso violenta, in stretta connessione con il denaro e il potere, che taglia fuori la relazione e la reciprocità dei sensi.
Nel 2015, su Internazionale ne scrisse anche Raimo, a proposito delle devastazioni a Milano contro L’Expo, e la memoria va all’analisi di Robin Morgan, che nel suo Demone amante – sessualità del terrorismo, decostruisce il tema della violenza, ne svela funzione e moventi, sia nel caso del dominio istituzionale così come delle fattezze della violenza ‘rivoluzionaria’.

Si tratta di una forte e persistente crisi performativa dei movimenti: quando si cede alla facile giustificazione della rabbia per sfasciare ogni cosa sul proprio cammino (e si minimizza, da parte di chi guarda, la portata del gesto distruttore) vuol dire che si rinuncia alla creatività, alla fantasia, all’empatia, allo studio e alla ricerca di strade alternative di comunicazione e di consenso delle proprie ragioni.
Soprattutto, si perde irrimediabilmente il senso del proprio agire.
Moltissime erano le ragioni di critica al G8 di Genova, all’Expò, alle violenze razziste della polizia Usa così come quelle odierne alla brutalità della polizia in Francia.
Ma, come Toya Graham sapeva bene, il risultato delle reazioni violente e distruttive alla violenza di allora, come a quella odierna, è la messa nell’angolo dei contenuti della critica.

 



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