La vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza

Una relazione della Commissione sul femminicidio illumina uno degli aspetti più controversi della lotta al fenomeno della violenza domestica.

Maria Concetta Tringali

Comunicata alla Presidenza l’11 maggio scorso e approvata dalla Commissione monocamerale d’inchiesta sul femminicidio nonché su ogni forma di violenza di genere il 20 aprile, con la Relazione sulla vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti che disciplinano l’affidamento e la responsabilità genitoriale, si apre uno squarcio importantissimo su uno degli aspetti più controversi della lotta al fenomeno della violenza domestica.

L’ultimo lavoro della Commissione, istituita con delibera del Senato della Repubblica il 16 ottobre 2018 e oggi presieduta dalla senatrice Valente, accende letteralmente un faro all’interno delle aule di giustizia e illumina un delle più grandi criticità del sistema italiano: la vittimizzazione secondaria.

L’indagine prende in esame 1.411 procedimenti giudiziari nel periodo 2020-2021, iscritti a ruolo nel 2017 sia in ambito civile che minorile. La disamina include perciò separazioni e giudizi sulla responsabilità genitoriale.

La Convenzione di Istanbul, primo vero strumento internazionale giuridicamente vincolante ratificato in Italia nel 2013 ma oggi per la gran parte ancora inattuato (lapidarie sono in proposito le conclusioni del GREVIO, organismo indipendente per il monitoraggio, rassegnate nel nostro paese a marzo del 2021), all’articolo 18 stigmatizza il fenomeno che si sostanzia nel “far rivivere le condizioni di sofferenza a cui è stata sottoposta la vittima di un reato, ed è spesso riconducibile alle procedure delle istituzioni susseguenti ad una denuncia, o comunque all’apertura di un procedimento giurisdizionale”, in una definizione della vittimizzazione secondaria che mutua dalle Sezioni Unite della Cassazione (novembre 2021).

Ma di cosa parliamo? Il dato è chiarissimo: parliamo della vita prima ancora che delle vittime di violenza domestica dei loro figli, vittime a loro volta di violenza assistita: “Uno stesso ordinamento – si legge in apertura di quel rapporto – non può tollerare che da una parte l’autore di violenze venga indagato e condannato per le condotte commesse e dall’altra venga considerato un genitore adeguato al pari di quello che le violenze abbia subito, senza che gli agiti violenti, nei procedimenti civili e minorili vengano accertati e abbiano dirette conseguenze sulla gestione della genitorialità. È necessario garantire l’adozione di provvedimenti coordinati”. Questo risulta essere, dal racconto delle operatrici avvocate di centri antiviolenza, lo snodo, il punto cruciale da cui dipende financo la volontà della vittima di denunciare e di affidarsi alla giustizia.

La finalità – si legge, più oltre nella relazione – è di valutare sia l’incidenza sul numero complessivo dei procedimenti iscritti di quelli nei quali siano presenti episodi di violenza o di disfunzionalità genitoriali, che portano al rifiuto del figlio minore di frequentare uno dei due genitori, sia l’accertamento di queste condotte nell’ambito dei giudizi e gli effetti sul regime di affidamento, sul collocamento e sulle modalità di frequentazione genitori-figli”.

Gli approdi sono gravi. L’implicazione tocca percentuali altissime, molti dei giudizi indagati, separazioni, divorzi, cause sulla responsabilità genitoriale, integrano situazioni in cui le mamme restano vittime per la seconda volta, non più del maltrattante ma del sistema e quindi addirittura dello Stato: “La violenza nei contesti familiari ed affettivi non è certo un fenomeno isolato o sporadico. Si pensi che ben il 34,7% dei procedimenti contiene allegazioni di violenza, mentre il 5,8% associa sia allegazioni di violenza che di disfunzionalità. Pertanto, dei 2.089 procedimenti di separazione giudiziale con figli minori, relativi al trimestre in analisi, un totale di 724 casi risulta rilevante per l’indagine in quanto vi è la presenza di allegazioni di violenza e/o di disfunzionalità genitoriale”.

Vittime anche da un punto di vista economico, le donne devono fare i conti anche con la ricaduta di quei procedimenti in termini di costi: “L’ultimo elemento su cui richiamare l’attenzione in ordine al problema della vittimizzazione secondaria riguarda l’impoverimento della condizione economica delle madri, costrette a sostenere un carico economico eccezionale per proteggere loro ed i propri figli nelle sedi giudiziarie. Oltre alla presenza di un rapporto squilibrato dal punto di vista economico con i loro ex partner, che nella maggior parte dei casi godono di introiti maggiori, le madri devono sostenere il costo dei professionisti che supportano l’azione giudiziaria (avvocati, psicologi, consulenti di parte) a partire da risorse non elevate. Inoltre, risultando spesso soccombenti in molti procedimenti, le madri devono sostenere anche gli oneri maggiori per le spese processuali quando non ne è prevista la compensazione. In alcuni casi le madri, oltre a vedersi contestata la lite temeraria, vengono censurate per l’esposizione mediatica delle loro vicende; per alcune madri, le accuse da loro rivolte ai consulenti tecnici, ai curatori e ai tutori nonché ai giudici, hanno comportato delle contro denunce con esborsi economici notevoli”.

La Commissione pone sul tavolo criticità che pesano come macigni “La violenza non viene riconosciuta neppure quando la madre denuncia abusi sui minori. È proprio in questo ambito che si consuma la vittimizzazione più drastica delle donne e dei minori: i procedimenti relativi a questi abusi vengono infatti archiviati, con la motivazione che il minore sia inattendibile e la madre alienante, quindi sostanzialmente per le difficoltà di accertamento dei fatti denunciati con il conseguente rischio di determinare il collocamento del minore proprio presso il padre”.

Ed è in questo contesto che si inseriscono le consulenze tecniche d’ufficio. La relazione dà conto, finalmente, di un grande limite del sistema: “in primo luogo, spesso i consulenti non vengono scelti in albi con un una specifica formazione sui temi della violenza di genere”. Non c’è preparazione adeguata, insomma, non c’è – in moti, in troppi di questi operatori e operatrici – conoscenza del fenomeno. I danni sono, chiaramente, incalcolabili.

Gli obiettivi cui tende la Commissione sono di tutta evidenza. La senatrice Valente che quei lavori ha presieduto è chiarissima e parla della realtà dei nostri uffici giudiziari: “Ci auguriamo possa essere uno strumento utile e prezioso per arrivare a leggere correttamente la violenza contro le donne nelle cause di separazione – dice – con l’intento di aumentare la consapevolezza sulle dinamiche di ulteriore penalizzazione delle vittime, per abbattere stereotipi e pregiudizi che spesso colpiscono donne e bambini, portano sofferenza e distorsioni giudiziarie e che rischiano di costituire un impedimento alle denunce femminili e quindi all’intervento dello Stato”.

La relazione è importante perché cristallizza lo stato dell’arte. E lo fa partendo dal cuore del problema laddove isola la radice culturale del fenomeno. Le considerazioni sono come pietre e sulla vittimizzazione secondaria dicono senza infingimenti che sia un tratto “per lungo tempo tollerato e sottovalutato, in quanto ritenuto espressione di costumi sociali consolidati” per concludere che “solo negli ultimi decenni ha visto una più incisiva presa di coscienza internazionale con l’elevazione del contrasto alla violenza domestica e nei confronti delle donne nell’alveo della tutela dei diritti umani”.

Enorme è il peso del lavoro condotto dalla Commissione che nel nostro panorama giuridico e sociale risulta ormai elemento imprescindibile, per una valida strategia di lotta alla violenza. E il Senato quello sforzo lo fa, già riscrivendo le definizioni al fine di valutare le condotte, ma insieme con la necessità di illuminare la risposta delle istituzioni: “La vittimizzazione secondaria, con particolare riferimento a quella che rischia di realizzarsi nei procedimenti giurisdizionali di separazione, affidamento e di limitazione e decadenza dalla responsabilità genitoriale, si realizza quando le stesse autorità chiamate a reprimere il fenomeno della violenza, non riconoscendolo o sottovalutandolo, non adottano nei confronti della vittima le necessarie tutele per proteggerla da possibili condizionamenti e reiterazione della violenza”.

Lo scopo dell’attività delle senatrici e dei senatori è in fondo quello di riportare sul tavolo della discussione le norme comunitarie: “Una puntuale definizione di vittimizzazione secondaria si rinviene nella Raccomandazione n. 8 del 2006 del Consiglio d’Europa secondo la quale “vittimizzazione secondaria significa vittimizzazione che non si verifica come diretta conseguenza dell’atto criminale, ma attraverso la risposta di istituzioni e individui alla vittima”.

Il grandissimo pregio della relazione – e dunque il suo stesso peso specifico – è quello di dar conto, per la prima volta, di ciò che ancora incombe sulle donne, sulle madri, tacciate persino di alienazione parentale.

Il costrutto – definito con l’acronimo di P.A.S. – è ritenuto ormai pacificamente privo di ogni scientifica valenza e sul punto basterà leggere l’ordinanza resa lo scorso 22 marzo dalla Suprema Corte, nel caso di Laura Massaro. Su bigenitorialità e dunque sulla centralità dei minori, sul loro superiore interesse, sulla obbligatorietà dell’ascolto, la Cassazione dà una serie di indicazioni che sono un architrave che deve considerarsi pietra miliare.

Perfettamente in linea con quell’attenzione e con quella preoccupazione si pone lo sforzo della Commissione: “Ciò che emerge dalla relazione – spiega la presidente Valeria Valente – è che donne e bambini vittime di violenza domestica possono subire ulteriore vittimizzazione nel corso dei procedimenti giudiziari di separazione. Ciò conferma che occorre maggiore formazione da parte di tutti gli operatori per riconoscere la violenza domestica e una più ampia correlazione tra cause civili per separazione e penali per violenza domestica”.

Presa di coscienza, acquisizione di consapevolezza che se arriva dal legislatore può solo dare apertura e speranza di cambiamento.

Ancora più netta la ministra Cartabia che parla di fenomeno che “fa tremare le vene dei polsi” e che non può dirsi contenuto in alcun modo. L’Italia – lo abbiamo letto – ha il primato, siamo al 34,7% delle separazioni giudiziali in cui si decide anche dell’affidamento con chiare indicazioni di violenza domestica; il dato si attesta sul 34,1% se guardiamo ai procedimenti minorili sulla genitorialità; il 28,8 per cento di violenza è diretta sui minori e di questa l’85% è compiuta dai padri.

Hanno accolto con favore il lavoro della Commissione anche i centri antiviolenza. Oggi più che mai un’opera di sollecitazione e uno sguardo critico su ciò che accade dentro i palazzi di giustizia è fondamentale.

Le volte in cui il genitore maltrattante avanza pretese di frequentazione dei figli minori che ha esposto a comportamenti abusanti e deviati sono fattispecie frequentissime, la violenza assistita è ancora purtroppo un fenomeno non del tutto intercettato dai giudici.

Le settimane scorse, possiamo ben dirlo, in Parlamento sono state caratterizzate da una serie di interventi di certo rilievo, non ultima l’approvazione del disegno di legge che si propone di ordinare e fare chiarezza sulla violenza di genere a partire dai dati. L’obiettivo è ambizioso, intendendosi con questa norma di monitorare il fenomeno e predisporre strategie di prevenzione e di contrasto. È stata la Camera dei deputati a licenziare il testo definitivo della proposta di legge recante “Disposizioni in materia di statistiche in tema di violenza di genere”, che era già stata oggetto di approvazione al Senato nel novembre 2020. I risultati delle elaborazioni ISTAT serviranno a conoscere e quindi a comprendere meglio i molteplici aspetti del problema che ancora oggi ci costringe a contare oltre un centinaio di donne massacrate, dal partner o ex partner, all’anno.

Qualche riferimento lo abbiamo già. L’istituto rileva come nel 2020 sia cresciuta l’offerta di servizi dei Centri antiviolenza e delle Case rifugio per le donne maltrattate. I numeri dicono che sono sorte 12 nuove Case e 11 Centri antiviolenza. La geografia non è omogenea: restano enormi differenze territoriali; mentre al Nord c’è il 70,2% di Case rifugio (257 in valore assoluto) quanto ai Centri antiviolenza, il Settentrione d’Italia ne conta una quota del 41,7% (146).

Da ultimo, non può omettersi di notare come lentamente anche le categorie professionali si muovano. Il progetto si chiama “Conoscere per proteggersi” ed è stato presentato a Catania nella giornata di venerdì 13 maggio. Si tratta di un’iniziativa che ha prodotto una guida utile a evitare o combattere la violenza economica. Il vademecum è stato promosso dal Consiglio nazionale del Notariato e da Banca d’Italia. Durante la conferenza di presentazione, cui hanno partecipato le associazioni e i centri antiviolenza, si è puntato sulla necessità di ridurre sino a eliminarlo il gender gap che nella sua accezione occupazionale, retributiva ed economica, rappresenta certamente il principale motivo di permanenza delle vittime all’interno di una relazione abusante.

Alla presenza del presidente del distretto dei Notai di Catania, Andrea Grasso, e del direttore generale dell’azienda Garibaldi, Fabrizio De Nicola, presidio che in città è uno dei più antichi, e di Marisa Scavo, Procuratrice aggiunta al Tribunale di Catania che coordina un pool di magistrati preparati a conoscere e reprime la violenza di genere, si è fatto il punto. Il pregio dell’iniziativa è quello di riunire a un unico tavolo le principali istituzioni della città.

L’esito di un ragionamento condiviso è una raggiunta consapevolezza: dotare le donne di una cassetta di attrezzi per una basilare competenza in materia economico finanziaria che spesso manca significa aiutarle, facendolo nel concreto, a non subire decisioni unilaterali in grado di privarle di ogni autonomia economica.
Sappiamo fin troppo bene come siano l’occupazione, un lavoro dignitoso e una casa sicura, i veri unici strumenti in grado di garantire affrancamento e, in fine, libertà alle donne di ogni latitudine.

 

(credit foto ANSA/MAURIZIO DEGL’ INNOCENTI)



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