Voucher lavoro: il ritorno al passato che piace a chi odia i sindacati

Il governo Meloni, con un salto indietro nel passato, ha reintrodotto i voucher lavoro, per la gioia di quelli che ne hanno sempre lamentato la scomparsa attribuendola al loro nemico preferito: la CGIL.

Renato Fioretti

La legge di Bilancio 2023, oltre che prevedere tagli nella perequazione delle pensioni superiori a 4/5 volte la minima, aumentare la cosiddetta disuguaglianza fiscale orizzontale tra percettori di redditi uguali (a vantaggio dei liberi professionisti rispetto a lavoratori dipendenti e pensionati) e strizzare l’occhio ai piccoli (ma non solo) evasori fiscali attraverso l’aumento del limite ai pagamenti in contanti e la probabile non obbligatorietà del Pos per i pagamenti fino a 60 euro, ha reintrodotto il ricorso ai già famigerati voucher.

Ciò ha immediatamente prodotto i contorsionismi verbali di chi, come Claudio Negro – pur di condividere e supportare l’incomprensibile furia iconoclasta del suo mentore, Pietro Ichino, nei confronti della Cgil – non ha esitato a prodursi in una vera e propria elegia degli stessi. L’incipit delle news è un classico: l’individuazione della Cgil quale nemica di sempre. Si fa quindi riferimento ai vecchi voucher, aboliti nel 2017 dall’allora governo Gentiloni, sull’onda – scrive Negro – “di una feroce campagna della Cgil”. Quello che non dice o, peggio, fa finta di non sapere (allora in questo caso mente, sapendo di mentire), è che la Cgil non era la sola a criticare gli effetti perversi prodotti da quei buoni/lavoro – introdotti dal decreto legislativo 276/2003 per retribuire prestazioni di natura meramente occasionale svolte al di fuori di un normale rapporto di lavoro subordinato o autonomo, da parte di persone a rischio di esclusione sociale o impiegate in attività sommerse (disoccupati da oltre un anno, casalinghe, studenti, disabili in comunità di recupero, eccetera) – inizialmente previsti per pagare pulizie e altri piccoli lavori domestici, ripetizioni, baby/sitter, giardinieri, eccetera, con un compenso dal valore nominale di 10 euro, di cui 7,50 netti al lavoratore per ogni ora di lavoro.

Questo strumento, in effetti, era rimasto sostanzialmente inutilizzato per quasi 5 anni e divenne operativo solo dopo un decreto del governo Prodi (marzo 2008) con la sperimentazione nel settore delle vendemmie. Quello stesso anno (governo Berlusconi) il decreto legge nr. 112, convertito poi nella legge 33/2009, ampliò sia la platea dei soggetti  coinvolti che dei settori di utilizzo; avviandone, in sostanza, la liberalizzazione e, come tenterò di documentare, la completa deriva.

A quel punto, anche i successivi governi concorsero a rendere sempre più appetibili per i datori di lavoro quei voucher tanto snobbati agli esordi. Con la riforma Fornero vennero estesi, di fatto, a tutti i settori produttivi e, grazie all’attuale Segretario Pd, all’epoca Premier di turno, fu eliminata – con la legge 99/2013 – la non trascurabile eccezione “di natura meramente occasionale”. Pertanto, un’informazione più seria (e, aggiungo, onesta) avrebbe dovuto accomunare a quella che, brutalmente, Negro definisce “feroce campagna della Cgil” – per il sostegno al referendum abrogativo della legge sui voucher – anche le considerazioni espresse da autorevoli addetti ai lavori in ruoli istituzionali e tutt’altro che anti/governativi. Risale, ad esempio, al 2013, ciò che riportava Giuseppe Baldino, Direttore generale dell’Inps Liguria, durante la presentazione del bilancio sociale 2013 dell’Istituto: “Quella della crescita del lavoro accessorio, e in particolare dei voucher, è una delle caratteristiche più evidenti del bilancio. E’ nata come forma di regolarizzazione del lavoro nero in agricoltura, ma poi è stata estesa a tanti ambiti, dal commercio al turismo: ora ci chiediamo se non sia il caso di ripensare il sistema, visto l’entità che il fenomeno ha raggiunto, e il rischio che i voucher si utilizzino anche in maniera impropria, al posto di forme di lavoro più strutturate”. Anche lui feroce?

Molto meno diplomatico l’allora Assessore al lavoro della Regione Puglia: “Non ne sono entusiasta, anzi, penso che siano uno degli aspetti più deleteri della svalorizzazione del lavoro. Io collego l’idea del voucher a quella di un grattino per il parcheggio”. E concludeva:”Ma se il fenomeno è così diffuso vuol dire che è in corso un abuso”. Un altro bolscevico?

Appena qualche anno dopo, un noto rivoluzionario e anti/governativo, Tito Boeri, in qualità di Presidente dell’Inps, avrebbe avvertito “il rischio che i voucher diventino la nuova frontiera del precariato. L’incremento può segnalare problemi futuri, bisogna guardarlo con estrema attenzione. Rischiano di essere per molti l’unica forma di lavoro”. Lo stesso Boeri, nel 2017 in occasione di un’iniziativa al Senato per ricordare la figura di Marco Biagi (alla vigilia della cancellazione dei voucher), così si esprimeva:”Circoscrivere l’uso dei voucher alle sole famiglie significa cancellarli del tutto perché è opportuno essere consapevoli che oggi solo il 3 % dei voucher viene utilizzato direttamente dalle famiglie”. Un contesto, quindi, dal quale si evinceva che i voucher erano sbalorditivamente lievitati e, soprattutto, destinati a tutt’altri scopi: dai circa 25 mila lavoratori coinvolti nel 2008 a quasi 1,4 milioni di unità nel 2015! Tra l’altro, i dati informavano – è sfuggito a Claudio Negro, evidentemente – che maggiore era il numero di voucher percepiti (e dunque meno causale/episodica era l’attività svolta) maggiore era la probabilità per un lavoratore di essere re-impegnato con la medesima tipologia nell’anno successivo.

Inoltre, giusto per non dimenticare, è opportuno anche rilevare che, all’epoca, ben l’84,4 per cento dei lavoratori pagati con i voucher non risultava essere nella condizione di raggiungere la cifra di 168,44 euro di contribuzione utile per aprire una posizione pensionistica. Nessun rilievo, dunque, ai fini della maturazione del diritto alla pensione. Ieri come, di nuovo, oggi!

Le conclusioni di Negro replicano l’incipit. Accusa il Sindacato (la Cgil, naturalmente) di mascherare la realtà con slogan e invettive contro i nuovi voucher – potenzialmente e sostanzialmente uguali ai precedenti – rispetto ai quali, però, lo stesso Gabriele Buia, in un’intervista rilasciata al corriere della Sera, nel settembre 2017, in qualità di Presidente dell’Ance, l’Associazione dei costruttori edili, così si esprimeva: “nel nostro settore i voucher non servono, anzi rischiano di essere controproducenti. Sono d’accordo, vanno eliminati”!

Per concludere, resta da segnalare un ulteriore tentativo, da parte di Claudio Negro, di ricorrere al gioco delle tre carte e prendere in giro l’inesperto lettore. Nel merito: al fine di contestare l’obiezione della Cgil – secondo la quale i voucher rappresenterebbero un’ulteriore forma di lavoro povero – il degno erede di Pietro Ichino (alias, Il licenziatore), si esercita nel manipolare i valori dei minimi contrattuali del Ccnl della Confcommercio e gli altri elementi aggiuntivi della busta paga per arrivare alla falsa conclusione che, in sostanza, il compenso orario previsto da un voucher sarebbe corrispondente a quello previsto per un lavoratore regolarmente inquadrato al settimo livello; con un differenziale di paga “veramente esiguo”!

“Dunque”, sentenzia Claudio Negro:”Il lavoro occasionale dal punto di vista retributivo non è più povero di quanto non lo sia il corrispondente trattamento di un normale contratto a termine”! Si tratta, in definitiva, di un tipico esempio di disinformazione assoluta e, direi, offesa all’intelligenza del lettore; pur se sprovveduto in materia. Tacere dell’enorme differenza che intercorre tra una prestazione di lavoro pagata con i voucher – senza contribuzione previdenziale, senza ferie, senza indennità di malattia e senza alcuna altra garanzia minima – e qualsiasi altro rapporto di lavoro subordinato, anche se povero, ma comunque pur sempre vincolato ai contenuti di un Ccnl, con tutto quanto ne consegue in termini di: retribuzione, tutele, garanzie e diritti, è disdicevole e, francamente, lo considero un atto indegno.



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