Diventeremo una colonia della Cina?

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Ci piaccia o no, con i tecnocrati cinesi dovremo trattare: sull’Afghanistan, sulla Via della Seta e poi sulle sorti stesse della Terra.

Le ultime, rovinose vicende afghane finiscono per alimentare anch’esse la narrazione dominante, secondo cui il nostro sarà il secolo cinese, come il Novecento è stato il secolo americano. Prima il portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahib, ha dichiarato che a ricostruire l’Afghanistan, sulla Via della Seta, sarà la Cina: unica grande potenza, sinora, a essersi saggiamente astenuta dall’invaderlo. Poi il senatore pakistano Mushahid Hussain ha rincarato la dose, ricordandoci che, mentre gli Usa buttavano nella Guerra al terrore seimila miliardi di dollari e mezzo (ha aggiunto per la precisione), la Cina decideva di investire nell’area mille miliardi, costruendo strade, ferrovie, oleodotti…



La domanda sorge spontanea: finiremo colonizzati dalla Cina, prima o poi, come Hong Kong, i porti greci, o i paesi africani produttori di metalli rari? Prima di rassegnarmi a quest’idea vorrei provare a seminare qualche dubbio sulla narrazione dominante. Intanto, come ci ha insegnato Jared Diamond, la Cina (in cinese Zongguo, Terra di mezzo, insomma centro del mondo) non è mai stata tanto interessata al resto del pianeta. Dopotutto, mentre Romolo e Remo erano allattati dalla Lupa capitolina, in Cina nasceva Confucio. Non è mai esistito un Marco Polo cinese: la flotta imperiale che si spinse più lontano, secoli fa, arrivò sulle coste africane e poi tornò indietro.

L’espansionismo dell’autocrate di turno, Xi Jinping, non deve dunque farci dimenticare che la Cina è uscita dal declino e dalla povertà solo negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, grazie alle riforme di Deng Xiaoping, cioè adottando un inedito capitalismo di Stato. Le aperture politiche, però, che avrebbero dovuto avvicinare la Cina a democrazie quali Giappone, Taiwan e Sud-Corea, sono finite nel sangue di piazza Tienanmen. Da allora i cinesi hanno pianificato il futuro adattando le tecnologie occidentali ai propri valori tradizionali: la meritocrazia, che la esenta dall’eleggere incapaci come Bush Jr. o Trump, e prim’ancora l’armonia gestita dall’alto, da sempre l’alternativa cinese al caos.



Eppure, la narrazione dominante del “secolo cinese” non è solo propaganda, e la narrazione alternativa – la Cina come gigante dai piedi d’argilla, con l’inevitabile trionfo della democrazia occidentale – non è plausibile, e forse neppure auspicabile. Non è plausibile, come mostra Simone Pieranni in Red Mirror (2020), perché la tecnocrazia cinese, investendo in scienza e tecnologia, ha sviluppato tecniche di controllo dei propri cittadini – Grande Muraglia elettronica, Progetto d’oro, Sistema di credito sociale… – che prima o poi anche l’Occidente rischia di imitare. Mark Zuckerberg, il patron di Facebook, che ha sposato una cinese e parla correntemente il mandarino, è spesso là, a prendere appunti.

Ma, soprattutto, che il gigante dai piedi d’argilla crolli, vittima della sua principale contraddizione – imporre a una società modernizzata e occidentalizzata versioni tecnologiche del tradizionale dispotismo “asiatico” – non è neppure auspicabile. Il crollo, infatti, comporterebbe la destabilizzazione dell’Asia e assesterebbe un colpo definitivo all’ecologia del pianeta. Con i tecnocrati cinesi, ci piaccia o no, dovremo dunque trattare: sull’Afghanistan, sulla Via della Seta e poi sulle sorti stesse della Terra. Sorti che dipendono meno dai nostri valori rispettivi, occidentali o asiatici, che dallo spaventoso inquinamento delle megalopoli sia americane sia cinesi.





 



(credit foto EPA/ROMAN PILIPEY)