La mafia, le donne e le disparità di genere nel Mezzogiorno

Categorie: Società

Nelle regioni in cui la presenza delle mafie è consistente, le disparità di genere sono più accentuate. Una correlazione da studiare.

Le disparità di genere, finora, sono state studiate soprattutto come fenomeno politico e sociologico e non come effetto criminologico, come se non vi fosse alcun rapporto tra la presenza delle molteplici forme di criminalità organizzata radicate ormai nel Sud del Paese e la condizione delle donne in quelle regioni. Eppure appare evidente che, proprio nelle regioni dove la presenza delle mafie è consistente, le disparità di genere sono ancor più accentuate rispetto alle regioni settentrionali, seppur la presenza delle mafie nel Nord e in altri Paesi europei – come l’Olanda e la Germania – è risaputa.



In Cose di Cosa Nostra Giovanni Falcone definì le mafie organizzazioni profondamente conservatrici[1] e spiegò il concetto con un esempio lampante: «Un uomo che ha avuto più di una moglie o intrattiene relazioni extraconiugali note in pubblico, che non è quindi capace di autocontrollo sul piano sessuale e sentimentale, non è un uomo affidabile». Per poi aggiungere:
«L’unica donna veramente importante per un mafioso è e deve essere la madre dei suoi figli»[2]. A questo proposito basta ricordare il confronto diretto tra Totò Riina e il pentito Tommaso Buscetta nell’aula bunker di Rebibbia nel novembre del 1993: Riina, ad un certo punto, si rivolse alla Corte e rimproverò a Buscetta di avere avuto “molte donne” nella sua vita. Come a dire: è assurdo credere a quello che dice un uomo inaffidabile.

Dal palese spirito conservatore della mafia, tuttavia, è stato dedotto, forse frettolosamente, che il ruolo della donna nella mafia – in generale – fosse quello di una specie di figura assoggettata e completamente sottomessa al libero arbitrio del mafioso. Su questa linea si muove una celebre sentenza del Tribunale di Palermo che nel 1983 affermava che una donna appartenente a una famiglia di mafiosi, pur «nel mutevole evolversi dei costumi sociali», non ha «ancora assunto ai giorni nostri una tale emancipazione e autorevolezza da svincolarsi dal ruolo subalterno» e che, dunque, non può «partecipare alla pari […] alle vicende che coinvolgono il clan familiare maschile»[3].



Sentenze di questo tipo hanno avuto, però, un duplice effetto. In primo luogo hanno contribuito a sminuire le donne tratteggiandone un’immagine di subalternità che, inevitabilmente, viene estesa al piano psicologico, come se le donne non fossero di per sé in grado di avere un’autonomia nelle scelte personali. In secondo luogo le hanno esaltate sancendone a priori un’innocenza ontologica[4]. In altre parole: le donne sarebbero sempre vittime subordinate degli uomini e non avrebbero possibilità di svincolarsi da questa sudditanza psicologica.

Oggi, invece, gli esperti in materia sono certi del contrario: la criminalità organizzata in tutte le sue sembianze non è più o, forse, non è mai stata un fenomeno puramente maschile, che vedrebbe le donne formalmente escluse dai posti di comando e relegate in ruoli subordinati e di mero supporto ai propri uomini[5].





Gli esempi che vanno in questa direzione – opposta all’immaginario collettivo – sono fin troppi[6]. Già qualche anno fa Ombretta Ingrascì, studiosa dei fenomeni mafiosi di stampo femminile e autrice di Donne d’onore. Storie di mafia al femminile, ha dimostrato come le donne nelle mafie siano passate nel corso degli anni dal ruolo di mogli a quello di corrieri della droga, mediatrici finanziarie, messaggere e, infine, cape clan. Tuttavia, come spiega Renate Siebert, questo fenomeno non è da considerare frutto di un processo di emancipazione, ma semplicemente conseguenza delle condanne dei mariti e boss delle cosche. Insomma, la detenzione dell’uomo è stato il «presupposto fondamentale perché la donna esercitasse un ruolo pregnante all’interno della onorata società»[7].

Un altro fenomeno che dimostra l’evolversi e il mutamento del ruolo delle donne nelle organizzazioni criminali è quello del pentitismo. Difatti, già negli anni Ottanta, quando Giovanni Falcone a Palermo tentava di convincere più di un mafioso a collaborare con la giustizia, si vide confrontato apertamente con questo ruolo ambiguo delle donne all’interno delle cosche. Falcone ne scrisse in maniera esplicita: «Le donne […] hanno assunto un ruolo determinante: decise e sicure di sé, sono diventate il simbolo di quanto c’è di vitale, gioioso e piacevole nell’esistenza; sono entrate in rotta di collisione con il mondo chiuso, oscuro, tragico, ripiegato su se stesso e sempre sul chi vive di Cosa Nostra»[8]. In questo contesto Falcone elogiava alcune mogli di pentiti, che non solo avevano accettato la collaborazione con la giustizia da parte dei mariti, ma avevano addirittura appoggiato e sostenuto con forza questa pur non facile decisione. Falcone fece però anche l’esperienza contraria: alcune donne, scrisse in Cose di Cosa Nostra, «purtroppo non rare, non si sono ancora schierate con la cultura della vita. Penso alla moglie di Vincenzo Buffa, che aveva cominciato a collaborare con me. Ho commesso l’errore di permettergli di parlare con lei, come egli chiedeva insistentemente. E lei l’ha convinto a ritrarre, a rimangiarsi le sue dichiarazioni. Ha perfino organizzato una specie di rivolta delle mogli nell’aula bunker del maxiprocesso a Palermo: piangevano, urlavano, protestavano a gran voce […] contro i giudici»[9].

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È, tuttavia, soprattutto al di fuori delle mafie che si incontrano le donne vittime della criminalità organizzata, alcune perché hanno avuto il coraggio di denunciare gli esponenti mafiosi, altre perché sono state accanto a uomini che hanno lottato contro la mafia, altre, infine, perché hanno fatto della lotta alla mafia la propria ragion d’essere[10].

E ancora, le donne che vivono nel Mezzogiorno, a tutt’oggi soggette a disuguaglianze sociali, su cui si dovrebbe focalizzare la ricerca (anche sociologica).

I dati parlano chiaro: il tasso d’occupazione femminile tra 15 e 64 anni, in Sicilia, Campania, Puglia e Calabria, è il più basso in Europa, più basso della Guaiana francese, dell’Estremadura spagnola e della Grecia – solitamente fanalino di coda in queste ricerche. Come si può leggere nel rapporto Svimez 2019, «le giovani donne meridionali subiscono una triplice ingiustizia a causa della disuguaglianza sociale, sotto forma di divario territoriale, generazionale e di genere»[11]. La situazione, oltretutto, è paradossale, in quanto proprio le donne meridionali rappresentano le punte più avanzate del Sud, perché in genere hanno investito in un percorso di formazione e di conoscenza che le rende depositarie di quel capitale sociale che serve per competere nel mondo di oggi. Già nel 1999 il sociologo Francis Fukuyama avvertiva che uno dei maggiori problemi del Mezzogiorno sta nel quasi inesistente capitale sociale, vale a dire quel tipo di risorsa che è presente dove prevale, in tutta o in parte della società, la fiducia[12]. Solo attraverso il capitale sociale, fatto di relazioni che rendono disponibili risorse cognitive e normative e che permettono ai detentori di realizzare obiettivi altrimenti non raggiungibili, si può ridimensionare la disparità di genere presente nel Mezzogiorno. Tuttavia, in una società come quella del Sud-Italia, dove da un lato esiste una fiducia cieca verso il proprio nucleo familiare, mentre dall’altro prevale una sempre più diffusa diffidenza nei confronti della società e, soprattutto, dello Stato, è arduo puntare sul capitale sociale per tentare di eliminare le disuguaglianze di genere.

Eppure il principio di eguaglianza è pilastro della nostra Costituzione. L’art. 3 prevede che tutti i cittadini hanno «pari dignità sociale», senza distinzione di sesso e di condizioni personali e sociali. Il principio di eguaglianza impegna lo Stato a «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che […] impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Ecco, la mafia – con la sua cultura irrazionale e il suo spirito conservatore[13] – è in perfetta contrapposizione rispetto a questo principio portante della Costituzione e, dunque, strutturalmente contro ogni forma di emancipazione delle donne: le organizzazioni criminali di stampo mafioso hanno sempre avuto e continueranno ad avere un enorme interesse a mantenere alto il livello di disuguaglianza tra uomo e donna, in quanto solo una società patriarcale può fornire quel substrato ideologico necessario a legittimare la violenza (a volte subdola), l’intimidazione e la cultura della sottomissione. In questo contesto, le disparità di genere non sono casuali, ma volute e ogni movimento che va in direzione contraria è visto come movimento nemico di quella mentalità che favorisce il clima mafioso.

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Eguaglianza davanti alla legge significa che la legge si applica a tutti. Il principio fu esaurientemente formulato già nel preambolo della Costituzione francese del 3 settembre 1791, laddove si affermava che nel nuovo ordinamento «non c’è più nobiltà, né paria, né distinzioni ereditarie». Il principio di eguaglianza, sotto questo profilo, costituisce l’altra faccia del principio della generalità della legge: infatti, l’articolo 6 della Dichiarazione dei diritti del 1789 aveva stabilito che la legge è «l’espressione della volontà generale». Essa «deve essere la medesima per tutti, sia che protegga sia che punisca. Tutti i cittadini sono eguali ai suoi occhi». Motivo per cui le statue che rappresentano la dea della giustizia sono sempre bendate: la iustitia dev’essere cieca davanti alle controparti di un qualsivoglia processo. Il che implica, di conseguenza, che sono vietate leggi ad personam, leggi speciali o eccezionali.

E cosa sono le mafie se non organizzazioni che fanno proprie le leggi, che non rispettano la volontà generale, che non riconoscono pari dignità agli individui e, soprattutto, non riconoscono alla donna quel ruolo che le spetta: il ruolo di individuo autonomo previsto dalla Costituzione? E non è proprio in questo contesto che riscontriamo, forse, il più grande fallimento dello Stato, se tutt’oggi non è riuscito a garantire alle donne nel Sud quella parità, quelle pari opportunità di cui hanno urgentemente bisogno proprio per liberarsi dalle catene della disoccupazione e del sottosviluppo socio-economico?

Obiettare che le mafie (e l’assenza di misure adeguate da parte dello Stato) non siano conditio sine qua non per le disuguaglianze di genere che possiamo notare nel Mezzogiorno, diventa difficile. Quello che possiamo constatare, anche nel confronto con altre regioni strutturalmente deboli nel resto dell’Unione europea è che, almeno si può inferire una correlazione sociologicamente rilevante tra la presenza delle mafie nel Sud e i dati che mostrano una situazione a dir poco precaria delle donne in quelle regioni.

La risposta a queste disparità di genere non può essere che politica: agire, cioè, con misure concrete, affinché le donne possano con maggiore facilità raggiungere un’autonomia sul piano economico e sociale, in modo da non permettere più alle mafie lo sporco gioco che hanno potuto fare finora. Le disparità di genere costituiscono, difatti, uno dei maggiori ostacoli allo sviluppo sostenibile, alla crescita economica e alla lotta contro il welfare criminale delle mafie. Il terreno fertile per le mafie è costituito anche da quelle condizioni specifiche, che rappresentano le cause della disparità di genere, come ad esempio il diffusissimo lavoro precario nel Sud, per le donne spesso part time (e ancor più spesso scarsamente retribuito). Non a caso i divari di genere rendono più difficile per le donne mantenere il proprio posto di lavoro rispetto agli uomini, creando uno scenario di dipendenza economica.

La parità di genere nel Sud dovrebbe essere, dunque, una priorità trasversale dello Stato, che dovrebbe aumentare i servizi di assistenza all’infanzia per favorire la conciliazione vita-lavoro. Secondo il rapporto Svimez 2021, mancano nel meridione ben oltre 200mila posti in asili per colmare il rapporto tra posti disponibili e numero di bambini di età compresa tra 0 e 3 anni[14]. La stretta correlazione tra occupazione femminile e servizi per il cittadino, è testimoniata dalle evidenze statistiche: sono proprio le regioni che presentano la migliore copertura dei servizi per la prima infanzia e i migliori tassi di istruzione femminile (Trento, Emilia-Romagna, Toscana) a far registrare i tassi di occupazione che più si avvicinano alla media nell’Unione Europea.

* Alessandro Bellardita, giudice penale a Karlsruhe e docente universitario presso la Hochschule für Rechtspflege Schwetzingen

[1] Giovanni Falcone, Marcelle Padovani, Cose di Cosa Nostra, (1991), BUR Rizzoli, 2019, p. 88. Qui Falcone fa riferimento alla mafia siciliana, ma credo che si possa estendere la sua affermazione a tutte le mafie presenti in quegli anni in Italia, specie nel Mezzogiorno.

[2] Ibidem.

[3] Citazione tratta da libro di Teresa Principato e Alessandra Dino, Mafia donna, le vestali del sacro e dell’onore, Flaccovio, 1997, p. 12.

[4] Armando Ermini, “Donne, mafia e criminalità organizzata, un rapporto impensabile”, L’interferenza, 21 settembre 2016.

[5] Si veda: Renate Siebert, Le donne, La mafia, Il Saggiatore, 1994; Ombretta Ingrascì, Donne d’onore. Storie di mafia al femminile, Mondadori, 2007; Liliana Madeo, Donne di mafia, Mondadori, 1992.

[6] Giusto per fare qualche nome: Maria Filippa Messina è la prima donna mafiosa al 41bis. Arrestata nel 1995, fu considerata elemento di primo piano del clan mafioso capeggiato dal marito. Un altro nome di spicco è quello di Giusy Vitale: la prima donna alla quale la Procura di Palermo ha contestato il reato di associazione mafiosa e che poi ha condannato con sentenza definitiva. È stata capo mandamento di Partinico, quando i fratelli finirono in carcere. L’ultimo caso eclatante riguarda Maria Rosa Campagna, descritta come «una donna con le palle». La Campagna teneva le redini della cosca per conto del compagno Salvatore Cappello, detenuto in regime di 41 bis nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.

[7] Ombretta Ingrascì, op. cit., p. 18.

[8] Falcone, Padovani, op. cit., p. 98.

[9] Ibidem.

[10] Si pensi, con specifico riferimento alla lotta a Cosa Nostra, a Francesca Morvillo, moglie di Giovanni Falcone e anch’ella magistrato, dilaniata con il marito nella strage di Capaci. O a Emanuela Loi, la poliziotta di scorta a Paolo Borsellino, la prima donna a cadere nella storia delle forze dell’ordine, il 19 luglio del 1992. Oppure, spaziando indietro nell’aspra vicenda nazionale della lotta per la legalità, si pensi a Renata Fonte, la giovane assessora alla cultura di Nardò, provincia di Lecce, uccisa nel 1984 per il suo impegno contro la speculazione edilizia sul parco naturale di Porto Selvaggio. Ne è un esempio Francesca Serio, la madre del sindacalista Salvatore Carnevale, che rompendo un’omertà secolare ebbe il coraggio di denunciare alla giustizia gli assassini del figlio avendo solo la certezza morale delle loro responsabilità. Oppure Felicia Impastato, madre di Peppino, moglie di un mafioso e madre capace di allevare un figlio anti-mafioso.

[11] Si veda il rapporto Svimez dell’Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno del 2021: bit.ly/3vEWsd4.

[12] Francis Fukuyama, Der große Aufbruch – wie unsere Gesellschaft eine neue Ordnung erfindet, dtv, 2002, p. 33; trad. it. La grande distruzione. La natura umana e la ricostruzione di un nuovo ordine sociale, Baldini & Castoldi, 1999.

[13] Sullo “spirito mafioso” si veda il contributo di Gaetano Mosca, “Che cos’è la mafia?”, in Nando dalla Chiesa, Contro la mafia. I testi classici, Einaudi, 2010, pp. 133.

[14] Rapporto Svimez 2021, p. 26.



Credit foto: Fontana Pretoria, Palermo. Foto di SIMR92 via Wikimedia Commons (CC BY-SA 4.0).