Non nasciamo, diventiamo

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L’immagine di un padre gravido non la giudico estrema, non mi pare fagocitare la donna. È tempo di costruire alleanze tra diversi.

«Un pancione, una vita che nasce, un bambino che arriva. E poco importa che la persona incinta disegnata da Fumettibrutti per la copertina del nuovo numero dell’Espresso abbia barba e baffi: ‘La diversità è ricchezza’, è il titolo, scritto a pennarello, su quella pancia»[1].



La diversità, finalmente, viene a essere al centro dei nostri rapporti e, tuttavia, è qualcosa che abbiamo già abitato, sebbene entro i termini rigidi del dualismo biologico maschio-femmina, quando nominavamo “differenza” quella che era mera contrapposizione tra due scarne individuazioni. Ed era tutto là: o pene o vulva. Date le premesse, non potevamo fare altro che partire dagli organi genitali per contestarci, per riconoscerci, per ricostruirci.

Prorompe oggi una differenza più complessa, che va oltre quella a due maschio-femmina: l’emancipazione dalla discriminazione sessuale sta illustrando termini non biologici, ancora più culturali e politici che in passato. Il sesso visibile e morfologicamente designabile è un parametro temporaneo: è un’evidenza dalla quale non si prescinde, storicamente la donna ha lottato per risignificarla, ma si va oltre.



Le lotte femministe hanno spianato la strada, reagendo al determinismo della natura con l’auto-determinazione dell’essere umano, hanno inventato la loro libertà sessuale e hanno accompagnato l’umanità verso un orizzonte più ampio. L’esperienza storica e politica delle donne ha mostrato che i ruoli tradizionali loro assegnati erano una finzione utile a costruire il mondo in un certo modo. Lo svelamento della finzione ha aperto la strada ad altre possibilità: oggi siamo vicini a produrre nuove forme e nuove immaginazioni collettive: l’io decido del mio corpo, che è stato delle donne, è oggi di tutte le persone, è consegnato a tutti i corpi che decidono di sé. La differenza biologica maschio-femmina è la differenza a partire dalla quale abbiamo incontrato il molteplice e il possibile. Allora perché c’è ancora chi si spaventa all’idea di ricombinare i significati del pene e della vulva? Perché i corpi denudati dalla consuetudine sono sempre osceni, incontrollabili, prepotenti. Sono sempre “troppo” nuovi. Cionondimeno, è necessario resistere alla tentazione di rimuovere queste verità sorgenti, credendo di dover conservare le posizioni conquistate, perché è esattamente la conquista di queste posizioni a liberare nuove occasioni di felicità.

Quando le donne hanno unito le forze per il diritto all’aborto, ad esempio, hanno posto una pietra miliare. Hanno affermato che il mero possesso dell’utero non fa di noi persone destinate alla maternità. Grazie a questa battaglia, abbiamo abbattuto il concetto che assimila la vita alla prosecuzione meccanica della specie; abbiamo affermato la vita in quanto progetto consapevole, responsabile, volontario: generare la vita è, allora, assenso alla responsabilità di cura, è l’accoglimento dell’altro intorno all’offerta di sé, del proprio tempo, delle proprie risorse, della propria carnalità. Questi compiti relazionali, la persona può assolverli con il corpo in cui è nata o con il corpo che si è ri-progettata. Il centro della questione, grazie alla rivoluzione delle donne, infatti, non è più il corpo della femmina o il corpo del maschio; la questione è il corpo totale, che assorbe le differenze, perché il corpo – ovvero il corpo di chiunque – è il luogo concreto in cui si situano la nostra esistenza e la nostra progettualità: il mio corpo non vuole sembrare, non vuole “fungere da”, vuole essere e vuole “fare”, ha bisogno di rendere intensi, tangibili e completi i legami che stabilisce e per i quali, rendere leggibile la corrispondenza tra forma esteriore e immagine interiore di sé, può tanto essere uno strumento della relazione tra sé e il mondo, quanto no. Femminile, maschile e i variegati, fluidi colori della sessualità umana: nessuna di queste realtà è in pericolo o confligge con l’altra, perché ciascuna si riforma e si rinnova nelle scelte e nei percorsi di ognuno.





L’intersezione tra individui, genere e differenza accoglie nuove individuazioni per le quali stiamo cercando nomi, desinenze, definizioni: spero che qualsiasi espressione si affermi sia accolta in quanto precaria e instabile, che sia accolta perché ci permette di comunicare, senza mai dimenticare che essa, seppur al momento necessaria e in qualche modo precisa, è potenzialmente superabile: è tempo di desiderare la fine delle egemonie, è tempo di aspirare a una politica che non assembli somiglianze per generi. È tempo di costruire alleanze tra diversi.

Il corpo, eterosessuale, non eterosessuale, transessuale, il corpo, indifferentemente, di ciascuno di noi è un corpo che può amare e, amando, può chiedere di dare e veicolare la vita. La rivoluzione iniziata dalle donne continua con la lenta, progressiva trasformazione delle relazioni umane, è stata un passo cruciale verso la possibilità di immaginare nuove forme di unità tra le persone. Il discorso sulla vita, dunque, non riguarda la verità con cui siamo apparsi all’origine: l’origine è un momento sopravvalutato. Il discorso sulla vita riguarda la vivibilità che è un’estensione null’affatto momentanea: la vita è vivibile, se possiamo incarnare l’immagine che abbiamo di noi stessi, se non riabilitiamo il mendace equilibrio di opposti con cui abbiamo storicamente facilitato la nostra comprensione del caos.

L’immagine di un padre gravido non la giudico estrema, non mi pare fagocitare la donna, alla quale sottrarrebbe l’esclusività del parto. Ci scambiamo di ruolo, di posto, confondiamo i nostri perimetri? Sì. Perché no? Noi non nasciamo, diventiamo.



[1] Angiola Codacci-Pisanelli, “La diversità è ricchezza: L’Espresso in edicola e online da domenica 16 maggio”, L’Espresso, 14 maggio 2021.