Quel che Giorgia può insegnare alla sinistra

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Posso dire che il discorso d’insediamento della Meloni mi è piaciuto? Posso dirlo, cioè, senza suscitare il sospetto di salire sul carro del vincitore, dopo una vita passata a scenderne? Mi è piaciuto il suo riferimento a se stessa, e ai propri ceti di riferimento, con il termine inglese ‘underdog(s)’: outsider, perdenti-nati capaci di sovvertire i pronostici, come ci ha spiegato ieri Ferdinando Fasce. Si riferiva a se stessa, naturalmente: giovane, per i nostri parametri politici, donna, madre-non-sposata, emersa da una situazione familiare complicata e da un ambiente maschilista e misogino come la destra italiana.



Ma la neo-presidente del Consiglio si riferiva anche ai ceti di riferimento della destra sociale della destra sociale da lei incarnata, che un marxista avrebbe chiamato (sotto)proletariato e (piccola) borghesia, oggi estesi alla media borghesia proletarizzata. Insomma, i ceti di riferimento di tutti i movimenti populisti occidentali, l’esercito di nuovi poveri, disoccupati e sotto-occupati, prodotti dalla globalizzazione liberista. Quando però il sindacalista nero Soumahoro le ha ricordato chi sono i veri underdog – i migranti, clandestini e iper-sfruttati – abbiamo improvvisamente capito cos’è questo populismo all’amatriciana: la rivolta dei penultimi contro gli ultimi.

Eppure, alla sinistra devono essere fischiate le orecchie. Perché, anche senza allargarci ai dannati della Terra di Fanon e a tutti i diseredati del Vangelo, disoccupati e sottoccupati sono proprio quei perdenti della globalizzazione che – tramontato il mito della classe operaia, passata a destra da almeno un trentennio – dovrebbero essere proprio i ceti di riferimento della sinistra. Invece, il Pd non guarda al di là delle zone ZTL delle grandi città; il partito di Conte, già M5S, si accontenta dei delusi del Pd. E non parliamo dei neocentristi alla Renzi & Calenda, ancora fermi a quella Terza Via di Tony Blair da cui è iniziata, trent’anni fa, la mutazione genetica della sinistra. Centristi che, pur di sopravvivere, sarebbero già contenti di fungere da centro per l’attuale maggioranza di destra-destra.



Sin qui, i punti di forza, o almeno i motivi di simpatia, del discorso della Meloni: leader tutto sommato credibile, specie se comparata agli alleati Salvini e Berlusconi, di un’area dell’elettorato destinata ad allargarsi ancora se, con il contributo decisivo dell’attuale maggioranza, i processi di impoverimento e precarizzazione si aggraveranno ulteriormente. Da qui in poi, però, solo una grandinata di debolezze, un florilegio di incompetenze e di conflitti di interesse, un tale vuoto pneumatico di idee che per parlarne in modo esauriente occorrerebbe un libro. Ma proviamo a indicare i problemi più evidenti.



Anzitutto, l’assoluta mancanza di una classe dirigente, surrogata solo da reduci del berlusconismo però invecchiati di trent’anni, e neppure compensata da tecnici di valore, indisposti a confondersi con una palude di dignitari di partito e di dilettanti allo sbaraglio. La totale assenza di una cultura di governo, se non di una cultura tout court: neppure Sgarbi hanno preso, che almeno parla l’italiano senza inflessioni regionali. Soprattutto, il riemergere di un autoritarismo decrepito, subito presa alla lettera da tutori dell’ordine che non aspettavano altro per tornare a manganellare studenti e chiudere porti. E pensare che oggi sono proprio gli industriali del nord – ceto di riferimento della vecchia destra – a lamentarsi di non trovare giovani e immigrati da impiegare.