Che rapporto c’è fra democrazia e buon governo?

Categorie: Il Rasoio di Occam

Un estratto da "Democrazia e buon governo. Cinque tesi democratiche nella Grecia del V secolo a.C." (LED. Edizioni)

Del saggio si propone un estratto composto di brani tratti dai capp. II e III e dall’“Introduzione” (l’intero volume è disponibile in open accesso al seguente link: www.ledonline.it/ledonline/985-democrazia.html).



In una democrazia è facile contrapporre, al principio isonomico (isonomia: ‘eguaglianza di diritti’) dell’«uno vale uno» e a quello proceduralista secondo cui «è giusto tutto ciò che decide la maggioranza», l’altro principio in base al quale un regime è valido o giusto solo se assicura il bene comune; d’altra parte, poiché gli individui sono necessariamente diversi per capacità intellettuale e/o morale, vi saranno individui più capaci di altri nel fare proposte positive per la comunità e quindi ritenuti più meritevoli di governare.
Tutto ciò spiega bene per quale motivo, nella Grecia classica, le fonti di V sec. a.C. ostili alla democrazia, soprattutto quando operano in contesti democratici ai quali evidentemente si rivolgono (Atene, Siracusa), usino, per rivendicare l’esercizio esclusivo del potere, non il criterio della nobiltà di nascita o della ricchezza (inaccettabili in una democrazia compiuta fondata sulla isonomia), ma soprattutto quello della competenza, cioè della loro capacità di assicurare il bene comune che è coerente con la logica della democrazia (in quanto regime volto ad assicurare il benessere dei suoi membri). Si tratta di un tipo di argomentazione autolegittimante che ha una lunga storia fino all’età contemporanea: uno dei massimi teorici contemporanei della democrazia, Robert Dahl, osservava che «regimi autocratici tra i più diversi […] hanno proclamato la propria legittimità affermando di essere i soli e veri garanti del bene collettivo».[1]

Le argomentazioni di parte antidemocratica hanno una loro intima coerenza, e possono essere così riassunte.



  1. Il criterio in base al quale occorre affidare il potere è quello del maggior vantaggio per la comunità (o per la sua parte più importante), e in nessun modo quello della ‘giustizia’, cioè di una eguale distribuzione del potere decisionale.
  2. Il buon governo è dato dalla maggiore competenza; tale competenza è costituita dalla somma di doti intellettuali (preparazione culturale e intelligenza) e morali (equilibrio morale e volontà di perseguire il bene). L’associazione dei due aspetti (quello propriamente intellettivo e quello morale) è un elemento ricorrente nella polemica antidemocratica, ma presente ancora in Protagora e Aristotele. Esso ritorna, indipendentemente, anche nella riflessione filosofica contemporanea sulla democrazia e sulle critiche alla democrazia[2].
  3. Il demos, sia considerato nei suoi singoli membri che visto come entità collettiva, non ha la competenza (né morale né intellettuale) per prendere decisioni politiche positive per la comunità. Se poi si tratta di ricoprire ruoli di responsabilità, un individuo popolare non è in grado di farlo (come Aristofane fa ammettere all’ignorantissimo Salsicciaio dei Cavalieri).
  4. Né il demos, in quanto incompetente, è in grado di valutare/apprezzare la competenza altrui (per assegnare, ad esempio, le cariche pubbliche): è la tesi centrale dei Cavalieri di Aristofane, o il tema ricorrente nel Vecchio Oligarca quando lamenta che gli Ateniesi diano più spazio agli ‘sciagurati’ (poneroi) che agli ‘individui utili’ (chrestoi).
  5. Dunque il demos, in quanto ‘incompetente’, non ha diritto a gestire il potere; anzi, si potrebbe dire che non ha diritto neppure a gestire sé stesso (ad essere libero), perché chi non è in grado di gestire sé stesso finirà per danneggiare sé stesso e gli altri. L’attuale riflessione politologica ragiona negli stessi termini: è evidente che «qualora non avesse la competenza necessaria, la gente non dovrebbe autogovernarsi»[3].
  6. Oppure, detto in altri termini, è interesse dello stesso demos cedere il governo a gruppi sociali più capaci di comprendere le questioni, e quindi più utili per il bene comune (‘bene comune’ non meglio definito: ma questo è un altro aspetto), perché il governo di tali individui e/o gruppi sociali difende il demos dai propri stessi errori (oppure da chi, sfruttando la sua minorità intellettuale, lo inganna e lo sfrutta: una tesi che ritorna in molti testi della tradizione antidemocratica greca).
  7. I gruppi sociali ‘più capaci’ sono quelli che, per effetto della loro nascita, agiatezza ed educazione ricevuta (sia di tipo formale che informale), hanno quelle doti intellettuali e morali che permettono loro di prendere decisioni buone (cioè tali in base al criterio del bene comune).

Questa sequenza di argomentazioni, che le fonti antidemocratiche esprimono in modo più o meno esplicito, rende chiaro per quale motivo ‘i pochi’ amino qualificarsi come ‘intelligenti’ (synetoi), ‘saggi’ (sophoi), e, particolarmente ad Atene, ‘utili’ (chrestoi); peraltro è interessante l’uso del termine achrestos già nella ‘legge di Drero’, fra 650 e 600 a.C., uno dei più antichi testi ‘costituzionali’ del mondo greco: il cittadino, se è tale, è ‘utile’, perché è in grado di contribuire al ‘bene comune’. Dai chrestoi, infatti, c’è da aspettarsi che venga quella «deliberazione utile alla polis» che il Teseo euripideo pone al centro del processo decisionale democratico, appunto sulla base del principio, già ricordato, che il potere trae legittimità dal suo essere utile (Euripide, Supplici, 438-439).

Una strategia analoga caratterizza la dinamica sociopolitica nelle democrazie contemporanee, nelle quali la fede acritica nella meritocrazia (dove il ‘merito’ è legato al possesso di intelligenza e istruzione) è divenuta «lo strumento oggi maggiormente impiegato dai gruppi privilegiati per costruire la propria superiorità»[4], al punto che per autorevoli pensatori politici uno dei principali problemi della democrazia contemporanea è «the tyranny of merit», per riprendere il titolo del fortunato ed influente saggio di Michael J. Sandel uscito appena due anni fa[5].





Proprio perché la democrazia condivide necessariamente il principio secondo cui scopo di ogni governo è fare il ‘bene’ di chi è sottoposto al suo potere, la rivendicazione da parte dei ‘capaci’ di avere l’esclusivo esercizio del potere aveva un evidente impatto propagandistico. Come osserva Dahl in una considerazione di carattere generale, in ogni contesto in cui vige il principio che il governo è volto al bene comune, «sul piano teorico il governo dei custodi costituisce il rivale più temibile della democrazia», perché considerata «isolatamente, […] l’Idea di Uguaglianza Intrinseca non è abbastanza solida da giustificare la democrazia»[6].

Lo stesso vale nel mondo greco del V secolo. Le accuse all’incompetenza del demos non potevano essere ignorate; contro di esse, i sostenitori della democrazia greca elaborarono una serie di argomentazioni, che saranno passate in rassegna, notando come alcune di esse ricorrano anche nel dibattito attuale. In molti casi è evidente il carattere ‘difensivo’ di tali argomentazioni, perché il principio basilare usato dai sostenitori della democrazia, come dicevano in apertura, è quello egalitario. Ma nello sforzo di reagire alle accuse, venne elaborato un ventaglio di ‘tesi democratiche’ internamente coerenti, e talora fra loro interconnesse: il loro intento non era difendere la ‘giustizia’ della democrazia (ricorrendo ad esempio al principio dell’isonomia), ma la validità dei suoi risultati, cioè la correttezza delle decisioni che potevano essere raggiunte attraverso il procedimento democratico.

Da tale rassegna si confermerà che il mondo greco elaborò una compiuta ‘teoria della democrazia’, contro la tesi espressa da molti studiosi che ne hanno negato o comunque messo in dubbio l’esistenza: anche se «we have no surviving texts written with the explicit intention of explaining to a reader the principles on which Athenian democracy was predicated»[7], le fonti riportano numerose argomentazioni a difesa della validità decisionale della democrazia, dalle quali emerge una chiara consapevolezza teorica, comune anche fra diversi contesti.

Grosso modo, tali ‘tesi democratiche’ possono essere distinte in due diversi filoni, cui saranno dedicati rispettivamente i capp. III e IV: quelle che ammettono l’inferiorità della competenza dell’uomo comune rispetto alle élites intellettuali, ma rivendicano comunque la superiorità di giudizio della collettività rispetto ai singoli per quanto capaci (superiorità dovuta a fattori diversi); quelle che invece non prendono in considerazioni le differenze, o comunque non creano per questo categorie distinte, ma insistono sui fattori che rendono comunque adeguata la competenza politica dell’uomo comune.

Un aspetto di notevole interesse è che le argomentazioni a favore e contro il buon governo democratico presentano temi comuni e schemi concettuali ricorrenti anche a distanza di secoli: non per affermare una generica similarità fra ‘democrazia greca’ e ‘democrazia moderna’ e neppure una inesistente continuità sul piano ideologico fra democrazia ateniese e democrazia contemporanea, ma per mostrare come problemi teorici simili (come la tensione fra ‘governo nelle mani di tutti’ e ‘capacità di governo’) conducano ad argomentazioni simili: esiste una sorta di grammatica concettuale che segue regole comuni.

Nel proporre un approccio di questo tipo si è in ottima compagnia. Non solo perché, in generale, in questi ultimi tre-quattro decenni, si è spesso guardato alla democrazia ateniese come fonte di ispirazione o di riflessione per i problemi delle democrazie contemporanee (talora anche a livello istituzionale, come nel caso della citazione dall’Epitafio di Pericle posta in apertura della ‘Bozza di Trattato istituente una Costituzione Europa’). Non solo perché sempre più il dialogo con le scienze sociali contemporanee è divenuto strumento di indagine e occasione riflessione per lo storico del mondo antico (in particolare per gli studiosi di quella realtà ateniese che presenta indubbi aspetti di vicinanza alla nostra esperienza contemporanea).

Ma anche perché l’idea che esistano ‘schemi concettuali’ simili è stata autorevolmente espressa. Relativamente al rapporto fra libertà, eguaglianza e democrazia (che non è il tema di questo testo), uno dei massimi studiosi al mondo di democrazia ateniese, Mogens Herman Hansen, ha osservato che sul piano della ideologia politica esiste una «striking similarity between contemporary liberal democracy and ancient Athenian demokratia», pur in assenza di una tradizione diretta fra democrazia ateniese e democrazia contemporanea: il che mostra che «there is something fundamental about democracy which is conducive to liberty and equality, and, conversely, that liberty and equality are conducive to democracy»; pertanto «a comparative study of ancient and modern democracy becomes even more important»[8].

Certo, bisogna evitare di adattare le fonti antiche a categorie interpretative contemporanee. Ma ciò non ci deve impedire di cogliere l’«analogia di princìpi», la «striking similarity» fra formulazioni antiche e contemporanee, sia in ambito teorico che in quello più vulcanico della polemica politica, che emerge in contributi giornalistici, dichiarazioni pubbliche, oppure saggi che potremmo definire ‘di denuncia’[9]; in qualche caso le analogie saranno perfino lessicali. Perché il confronto, notoriamente, è anche una strategia euristica, un modo per cogliere meglio i meccanismi concettuali ricostruibili dai ‘frammenti di discorso politico’ che saranno passati in rassegna: convinti, come scriveva uno dei massimi storici del mondo greco, Moses I. Finley, appunto nel suo saggio intitolato Democracy Ancient and Modern, che «ciascuna società può aiutarci a comprendere l’altra»[10].

Una tale riflessione può avere qualche interesse anche per il ‘cittadino comune’: allo scopo di riconoscere o capire meglio, attraverso il gioco di somiglianze e differenze con il dibattito ideologico del mondo greco, i meccanismi concettuali operanti anche nel dibattito contemporaneo sulla democrazia, che rimangono spesso impliciti, ma proprio per questo sono più insidiosi e che talvolta risentono più o meno consapevolmente di concetti e presupposti già presenti nel dibattito interno al mondo greco.

Bastino due esempi (ma altri saranno richiamati durante la trattazione, anche per il loro valore euristico): la teoria aristotelica della classe media come fondamento della «migliore costituzione», la ariste politeia, rivive nelle argomentazioni di uno dei più importanti studiosi del rapporto fra democrazia e società, Seymour Martin Lipset; l’esaltazione della scarsa partecipazione alla vita politica come fattore di equilibrio è anticipata dalle riflessioni aristoteliche sulla democrazia agraria, così come la ‘teoria elitista’ della democrazia riprende l’ideale platonico dei filosofi-re e l’idea, cara alle fonti antidemocratiche del V sec. a.C., che solo una élite ben educata sia in grado di gestire la comunità.

Se queste pagine serviranno, dunque, anche ad una funzione ‘civica’ e politica di più ampia portata (ribadendo ancora una volta l’utilità ‘sociale’ dello studio del mondo antico, spesso negata), l’Autore ne sarà comunque lieto.

[1] R.A. Dahl, La democrazia e i suoi critici, Roma 19972 (Democracy and its Critics, New Haven 1989), p. 113. Cf. ibid., pp. 76-96, per una rassegna delle molte forme assai variegate in cui si è incarnato tale tipo di strategia autolegittimante (fra cui ad esempio il leninismo: 78-80).

[2] Vd. al riguardo Dahl, op. cit., pp. 84-91, partic. 85, dove è espresso il punto di vista di un sostenitore del ‘governo dei custodi’, cioè di un regime non democratico affidato ai ‘migliori’: «Per essere qualificati a governare, i governanti – siano essi i custodi oppure il demo – devono cercare attivamente di realizzare il bene della comunità. Questa qualità o inclinazione è ciò che mi piace chiamare con un nome antico: virtù. Quando la comprensione morale e la virtù si presentano congiuntamente nello stesso individuo, si ha un governante moralmente competente. Ma anche la competenza morale non basta: come sappiamo tutti, la strada che porta all’inferno è lastricata di buone intenzioni. I governanti dovrebbero anche conoscere i mezzi migliori, più efficaci e più appropriati per conseguire fini desiderabili. In breve, dovrebbero possedere anche un’adeguata conoscenza tecnica o strumentale» (i corsivi sono nel testo).

[3] Dahl, op. cit., p. 138. Cf. J. Brennan, Contro la democrazia, Roma 2018 (Against Democracy, Princeton 2016), pp. 189-219, nel capitolo dedicato al «diritto a un governo competente»: «i cittadini hanno quantomeno presuntivamente il diritto a sottostare a un corpo decisionale competente, ovvero che eserciti con competenza qualsiasi potere politico abbia su di loro» (p. 191).

[4] C. Volpato, Le radici psicologiche della disuguaglianza, Roma – Bari 2019, pp. 42-44; citazione da p. 42. In generale, sui «processi di legittimazione» della superiorità sociale ibid., pp. 33-49.

[5] Vd. M.J. Sandel, La tirannia del merito. Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti, Milano 2021 (The Tyranny of Merit. What’s Become of the Common Good?, New York 2020).

[6] Le due citazioni rispettivamente da Dahl, op. cit., pp. 77 e 125.

[7] Così J. Ober, Political Dissent in Democratic Athens: Intellectual Critics of Popular Rule, Princeton (NJ) 1998, p. 30. Il giudizio di Ober, in ogni caso, va corretto almeno per quanto riguarda l’Epitafio di Pericle, che è espressamente dedicato a mostrare epitedeumata, politeia e tropoi (democratici) degli Ateniesi (Tucidide, La guerra del Peloponneso, II 36, 4).

[8] Le tre citazioni da M.H. Hansen, The Tradition of Ancient Greek Democracy and Its Importance for Modern Democracy, Copenhagen 2005, pp. 6, 28 e 29 rispettivamente.

[9] Cito ad esempio, oltre ai testi di Brennan e Sandel già richiamati nelle note precedenti, i seguenti testi: A. Sen, La democrazia degli altri. Perché la libertà non è un’invenzione dell’Occidente, Milano 2005 (Democracy and Its Global Roots, “The New Republic”, 06 october 2003, 29-35); B. Caplan, The Myth of the Rational Voter: Why Democracies Choose Bad Policies, Princeton (NJ) 2007; J D. Van Reybrouck, Contro le elezioni. Perché votare non è più democratico, Milano 2015 (Tegen Verkiezingen, Amsterdam 2013); E. Stiglitz, Invertire la rotta. Disuguaglianza e crescita economica, Roma – Bari 2016 (Inequality and Economic Growth, in M. Mazzucato – M. Jacobs [eds.], Rethinking Capitalism. Economics and Policy for Sustainable and Inclusive Growth, Chichester [UK] 2016, pp. 134-155); F. Pallante, Contro la democrazia diretta, Torino 2020.

[10] M.I. Finley, La democrazia degli antichi e dei moderni, Roma-Bari 19822 (traduzione aggiornata di Democracy Ancient and Modern, New Brunswick [NJ] 1972).

 



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