Quest’Italia tra dramma e farsa

Un focus su “Come sopravvivere alla dissoluzione del Belpaese” di Michele Marchesiello e “L’Italia dopo l’Italia” di Perry Anderson.

«L’italiana non è una nazionalità ma una professione».



Ennio Flaiano

«Roma mi fa pensare a un uomo che si mantenga



mostrando ai viaggiatori il cadavere di sua nonna».

James Joyce





 

Michele Marchesiello, Dopo l’Italia – come sopravvivere alla dissoluzione del Belpaese, Il Canneto, Genova 2021

Perry Anderson, L’Italia dopo l’Italia – verso la Terza Repubblica, Castelvecchi, Roma 2014

Indignazione civile o idiosincrasie?

Perry Anderson – autorevole storico inglese con frequenti scorribande dalle nostre parti – così descriveva sette anni fa l’odierna icona di arci-italiano, circonfusa da un’aura di eccezionalità e accompagnata da uno strombazzamento patriottico che gli accredita l’ennesimo rinascimento immaginario; dalla vittoria agli europei di calcio alla medaglia d’oro olimpica nella gara dei cento metri: l’algido banchiere Mario Draghi, oggi premier e ultima entrata nel pantheon degli “uomini del destino”.

«Al suo arrivo alla Bce, Draghi si è presentato all’opinione pubblica tedesca come un guardiano Kaisertreu (“fedele all’imperatore”) della disciplina finanziaria. In realtà era un tipico prodotto del mondo bancario e burocratico italiano, e dei suoi usi e costumi. In stretta consonanza con la Merkel, ha giocato la sua parte nel favorire la caduta di Berlusconi nel 2011. Ma nell’estate del 2012 annunciò, con l’opposizione di Bundesbank, che la Bce era pronta a intraprendere ‘immediate transazioni monetarie’ per placare i dubbi sul futuro della moneta unica. […] La direzione di questi passi è chiara: sono movimenti progressivi per aggirare il divieto di un vero quantitative easing (acquisto diretto dei debiti di un governo) sancito dal Trattato di Maastricht». Sicché, «non c’è un presidente della Bce meglio equipaggiato a sovrintendere al cambiamento di quello proveniente dalla terra dell’adagio fatta la legge, trovato l’inganno» (P.A, pag.174). La ben nota italica spregiudicatezza, termine che non trova corrispondenti nelle altre lingue europee, come indipendenza di pensiero e libertà dai preconcetti. Ma che significa – altresì – mancanza di scrupoli e sfrontatezza.

L’assenza di rigore, che diventa codice genetico di un carattere nazionale la cui preminenza è l’atrofia del carattere.

Come disse Stendhal, «mai, fuori d’Italia, si poteva immaginare l’arte chiamata politica (il modo di far fare agli altri ciò che è piacevole per noi quando forza e denaro non sono disponibili)». Nella rilettura di Anderson, i nostri compatrioti «maestri in quell’abilità che Stendhal giustamente pensava essere peculiare degli italiani: l’arte della politica come esercizio virtuosistico di volontà e intelligenza personali, senza alcun corrispondente sentimento dello Stato come di una struttura oggettiva di potere e responsabilità» (P.A. pag.37).

L’irresponsabilità pubblica su cui si fonda la critica del succitato carattere nazionale come indignazione civile. Quella ripulsa che faceva esclamare al fiero temperamento di Giovanni Amendola “quest’Italia non ci piace”. L’Italia dei mezzucci e degli opportunismi, delle slealtà piccole/grandi (celebrate come “giri di valzer”); refrattaria a nobili pensieri e progetti generosi. “L’Italia alle vongole” delle polemiche di uno sparuto gruppo di laici-azionisti, di liberali critici e di sinistra, di pazzi melanconici (come li chiamava Gaetano Salvemini) riuniti attorno alla testata del settimanale il Mondo diretto da Mario Pannunzio.

Appunto, l’anti-italianità come sentimento politico rivolto all’etica pubblica. Ben diversa è l’insofferenza idiosincrasica come giudizio negativo in materia di costume. Si potrebbe definirla anti-italianità estetica.

Ossia lo stato d’animo che informa il saggio di Michele Marchesiello, ex magistrato nato a Bolzano (1941) ma cresciuto a Genova; dal 1967 al 2007 giudice apprezzato per il suo equilibrio e ora sempre più impegnato nel sociale, dopo una carriera che lo ha portato fino al Tribunale internazionale dell’Aja. Un distinto signore molto attento alle forme e ai modi; che – come suole dire – a New York si sente tutt’uno «con i Brooks Brothers, di cui si ostina a usare le camicie button down, rigorosamente oxford, rigorosamente azzurre» (M.M. pag.35). Mentre lo svaporato più elegante del Novecento – il duca di Windsor – questi capi se li faceva confezionare rigorosamente su misura. A Genova, da Finollo in via Roma. Come l’Avvocato Agnelli.

Le fisime degli impolitici

In tale viaggio tra i gusti/disgusti italioti ci fanno da guida quattro autorevoli esponenti di quella “società degli àpoti” (coloro che non se la bevono) ipotizzata dal perugino Giuseppe Prezzolini in una lettera apparsa sulla gobettiana Rivoluzione Liberale del 28 settembre 1922. Oltre al promotore di tale società, il brianzolo Carlo Emilio Gadda (il Gran Lombardo), Leo Longanesi da Bagnocavallo e il pescarese Ennio Flaiano. In qualche misura quattro provinciali, certamente impolitici quanto intimamente destrorsi. Intolleranti «verso quella ‘summa’ di realismo che è la politica, intesa come responsabilità e azione. Per loro l’azione è sempre ‘sporca’, come la politica, appunto, e non ci si sporcano le mani, tra intellettuali» (M.M. pag.102). Pure un po’ mammisti, e – come insegna Flaiano – «le mamme sono generalmente fasciste».

Certamente anti-italiani perché sommamente arci-italiani. «Per essere anti-italiani è pre-requisito indispensabile essere arci-italiani», afferma Marchesiello (M.M. pag.15). Se non altro per un tratto tipico (quanto curioso) dell’italianità: lo sport nazionale di auto-denigrarsi come teatralizzazione dell’eccellenza a rovescio.

«In nessun’altra nazione esiste un vocabolario di autodileggio così ampio ed è così frequente il suo uso. Italietta si usa per la vuota leggerezza del Paese; italico – una volta favorito dalla retorica fascista – è ormai sinonimo di atteggiamenti velleitari e di subdolo cinismo; italiota, il più amaro di tutti, è come il distintivo di un cretinismo invincibile. È vero che questi termini appartengono più al linguaggio colto che a quello popolare, ma la mancanza che esprimono è ampiamente diffusa. La buona opinione degli altri rimane estranea agli italiani stessi» (P.A. pag.14). Del resto in quale altro paese il sostantivo nazionale è sinonimo di pressapochismo, al limite del mal fatto: “all’italiana”. Mentre, per un francese à la française è garanzia di apprezzabilità, come per un cittadino del Regno Unito l’appellativo british certifica il meglio.

O meglio, italioti disprezzabili però immersi in una sorta di Paradiso Terrestre onirico; specie nell’attuale fase politica in cui diventa maggioritario il sovranismo becero-leghista, di chiara matrice esterofila, dell’italian first: “il Paese più bello del mondo” (dopo che ne abbiamo cementificato le coste, ridotto le campagne a depositi sotterranei di rifiuti tossici e trasformato in letti sfatti le città d’arte; per cui la Grecia ormai ci supera, dopo Francia e Spagna, nel ranking delle mete turistiche); latte, polli e perfino nocciole “cento per cento italiani”… come se questi prodotti alimentari fossero muniti di passaporto (e intanto la Ferrero, multinazionale della nutella, si è comperata interi noccioleti in Turchia); “il posto dove si mangia meglio al mondo” (mentre la classifica dei migliori ristoranti europei Top 100+ 2019 vede in testa il Frantzen di Stoccolma, seguito da Schauenstein delle Alpi Svizzere, Asador Etxebarri dei Paesi Baschi, l’Arpege di Parigi e Quique Dacosta di Alicante). Ma già, i nostri sedicenti gourmet probabilmente bazzicano soltanto la mensa di casa loro. Da bravi provinciali, quali sono. Visto che perfino la “famosa gita a Chiasso” teorizzata da Alberto Arbasino, continua a essere una chimera per i nostri compatrioti, sedentari e un po’ panglossiani. Ossia illusi di vivere “nel migliore dei posti (mondi) possibile”.

Per cui Marchesiello – sulla scia dei suoi quattro critici–maître-à-penser – ha buon gioco nel mettere alla berlina l’intrinseco cheap nostrano, offrendoci una carrellata di bozzetti gustosi; in cui raffinatezza ed eleganza sono soppiantate da quella ricerca spasmodica – e intrinsecamente ridicola – dell’essere alla moda; che Longanesi sbatteva in faccia al povero Goffredo Parise (M.M. pag.30/69). Anche se il fustigatore controcorrente dei costumi era stato anticipato di qualche decennio da Coco Chanel (“la moda è quello che passa di moda”) e prima ancora da sir Iain Moncreiffe: “gente alla moda: i cretini di ieri con i pregiudizi di domani”.

Panoramica del cretinismo con un risvolto amaro: il rimpianto per una borghesia d’antan – «decoro, serietà, onestà intellettuale, rifiuto delle mode erano le qualità, forse anche le fisime, di quei borghesi, di quella borghesia che Longanesi si ostinava a difendere» (M.M. pag.30) – che probabilmente non c’è mai stata, che sarebbe stata sostituita da quei “nuovi borghesi” descritti come avidi e ignoranti, subalterni alla politica. Per cui la critica degli esteti impolitici si riduce spesso al gusto della battuta per la battuta: «l’italiano è mosso da un bisogno sfrenato di ingiustizia» sentenzia Longanesi, «la giustizia non è un diritto umano ma un accidente del momento, come il buono e il cattivo tempo» gli fa eco Prezzolini, tanto che finisce per subire il richiamo del macchiettistico lo stesso Marchesiello: «l’italiano non si indigna quando si trova davanti all’ingiustizia, ma si attrezza per affrontarla e voltarla a proprio vantaggio» (M.M. pag.95). Insomma, ci troviamo con un popolo di furbastri, composto da una moltitudine di Bertoldi, Bertoldini e Cacasenni. Non sarà perché quella vecchia borghesia “decorosa e seria”, che tanto piace agli impolitici nostalgici, era tragicamente prepolitica e assenteista? Per cui è venuta meno al suo compito di classe dirigente degna di questo nome, che è quello di selezionare e trasmettere valori accompagnando i processi di mobilità sociale, dirozzando e affinando i ceti emergenti. L’esatto contrario del non-ruolo svolto nell’ultimo quarto del secolo scorso dai bennati nella cosiddetta “capitale morale d’Italia” – Milano – alla fine della Prima Repubblica; che coincise con la calata barbarica degli “uomini nuovi” sdoganati dall’icona per eccellenza dell’arci-italianità – Silvio Berlusconi. Quando i decorosi e seri si chiusero nelle loro belle case di Corso Venezia o Viale dei Giardini trasformate in Aventino; magari cercarono un posticino all’ombra del nuovo potere.

Una scelta ancora una volta guidata da fisime all’insegna dell’insignificanza. Ma che il saggio di Marchesiello interpreta in maniera abbastanza stupefacente; quasi esistesse un’alternativa tra borghesia e politica: «le ferrovie, le miniere, i canali, l’energia, gli ingegneri e i tecnici, prima dei Parlamenti e dei politici coi loro discorsi, ancora oggi, chiunque lo vede, soffriamo di questo tragico equivoco. Il modo precipitoso – e sospetto – con cui la politica volle prendere la testa della nuova nazione, scavalcando l’industria e l’economia, tradì in modo definitivo il disegno della nascente borghesia, esponendola, indifesa, al sopraggiungere della società di massa» (M.M. pag31).

Questa sì, pura antipolitica. Trascurando che il moderno nasce all’apparire di due gemelli monozigoti: il burger (l’attore economico) e il citoyen (il soggetto politico).

Il primato della politica (per fare società)

Per cogliere appieno l’essenza di un Paese “invertebrato” come il nostro – quale emerge dalla critica estetica – forse sarebbe opportuno prestare attenzione anche alla dimensione dell’etica pubblica, come ci propongono gli approcci politici dell’altro pensiero anti-italiano. La lezione dei grandi “stranieri in patria” che con – Giovanni Amendola – sognavano e si battevano per un’Italia diversa: la galleria dei Piero Gobetti, degli Antonio Gramsci, degli Ernesto Rossi, dei Piero Calamandrei. I maestri di una politica guidata dai valori. Nella sua duplice accezione: non solo “tecnologia del potere” (Niccolò Machiavelli) ma anche “discorso pubblico sulle scelte strategiche di una società” (Erasmo da Rotterdam). Una seconda versione che – attualizzata – significa riportare l’agire economico sotto il controllo dell’interesse generale. Si chiama democrazia. Perché non tutto della nostra storia nazionale va buttato nel cestino dei rifiuti; almeno del periodo in cui un ceto politico composto da militanti antifascisti scrisse la nostra Costituzione repubblicana (accompagnati dell’incomprensione irridente degli impolitici destrorsi, cui si aggiungeva la vis distruttiva di Giovanni Guareschi e i suoi “trinariciuti”). Come ci ricorda un vecchio militante di una Sinistra libertaria come Perry Anderson, antico direttore della New Left Review: «giudicata secondo questi parametri, la Prima Repubblica, per quanto corrotta fosse diventata verso la sua fine, appare sotto una luce migliore. Al suo apice un reale pluralismo di opinioni ed espressioni politiche, una vivace partecipazione alle organizzazioni di massa e nella vita civile, un intricato sistema di negoziati informali, un solido livello culturale e la più impressionante serie di movimenti sociali che qualsiasi Paese dell’epoca potesse vantare» (P.A. pag.47)

Vivaddio, anche Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, erano italiani; come l’avvocato Giorgio Ambrosoli.

Semmai c’è da chiedersi se usciremo dall’esperienza del coronavirus migliori o peggiori di prima; dall’Italia in dissoluzione degli interessi inconfessabili e dei conflitti di interesse; al tempo di una Seconda Repubblica in transizione verso una Terza che non promette nulla di buono. Non solo e non tanto per ragioni estetiche, bensì per l’ininterrotto tracollo dell’etica pubblica. La cui inversione di tendenza non arriverà di certo dagli entusiasmi estetici dei laudatori di un algido banchiere trasformato in commissario politico di un regime al lumicino, coadiuvato dai sedicenti “migliori”: i presunti tecnici che promettono un misterioso “cambio di passo”; con in testa lo scienziato di Palazzo (e di Confindustria) Roberto Cingolani.