Che cosa è la nazione? Il caso dei Balcani occidentali

Un saggio di Luka Bogdanic sul conflitto serbo-croato ritorna alle fonti stesse del dibattito sulla nazione con un’analisi di grande attualità.

Possono esserci varie ragioni per cui nasce un libro, interessi personali, affinità per il tema studiato, curiosità, volontà di imparare e capire, ma anche desiderio di spiegare. Infatti, questo lavoro nasce soprattutto dalla volontà di spiegare o meglio provare a chiarire a sé e agli altri, che cosa sia la nazione e il nazionalismo, usando anche come caso di studio la concreta vicenda storica degli slavi del sud (soprattutto i croati e i serbi della Croazia).



L’esposizione nel libro procede dall’astratto al concreto nelle sue molteplici determinazioni e relazioni. All’inizio il lettore troverà l’analisi e la decostruzione di concetti e di categorie relativamente semplici e astratte che presiedono ai processi di genesi della nazione e dell’identità nazionale, come: identità, tempo, frontiera, modernizzazione ecc. Il libro è diviso in due parti, la prima è di natura teorica, costruita a partire da riflessioni di tipo filosofico-storico e antropologico. In essa si analizzano le premesse teoriche del concetto di nazione e del nazionalismo e si decostruisce l’autorappresentazione della nazione stessa e i discorsi nazionalisti sulla nazione. Dall’analisi emerge che la nazione è un artificio o meglio un costrutto socio-storico il cui fine è sempre altro da quello che l’autorappresentazione della nazione dichiara. In altre parole, la costruzione della nazione è una funzione sociale sempre volta a qualcos’altro e diversa dal suo scopo dichiarato; essa dichiara di difendere la tradizione ma in realtà la inventa, si presenta come una difesa di usi e di tradizioni ma in realtà omogeneizza lo spazio pubblico annullando le realtà locali e strumentalizzando il tempo pubblico e l’oblio sociale. Inoltre, essa è intrinsecamente legata all’industrializzazione e alla modernizzazione della società. Però, la nazione è anche, come ha messo in luce Otto Bauer, uno specifico dispositivo che ha permesso alla borghesia di traghettare la proprietà privata dallo Stato feudale allo Stato borghese, conservandola; cioè dichiarando lo Stato una cosa artificiale e la nazione il suo fondamento naturale. In altre parole, la nazione nel suo nesso indissolubile con l’identità è anche uno strumento di lotta per la ridistribuzione e per l’acquisizione delle risorse nei momenti di crisi e di transizione (nel senso più ampio della parola). Così, alla fine la nazione risulta un fenomeno estremamente fluido e opaco nella cui natura si può penetrare solo se lo si decostruisce nei suoi elementi costituivi, trattandosi di un dispositivo composito e contraddittorio, un contenitore che potenzialmente si può riempire di qualunque significato purché sia identitario.

Emerge così nella prima parte del libro la natura chimerica (fantasmagorica e pericolosa) della nazione e dei discorsi nazionalisti. La nazione e il nazionalismo, non solo costruiscono miraggi ideologici a seconda delle esigenze del momento storico, ma la nazione stessa e il principio di nazionalità sono una forma specifica di chimera ideologica se pensati come sostanziali (cioè come si presentano essi stessi).



Definendo la natura della nazione come chimerica, non s’intende assolutamente sostenere che i dispositivi e le dinamiche sociali su cui essa poggia e che produce sono inesistenti, ma si vuole mettere in luce che il suo apparire fenomenico sociale è profondamente ingannevole. Si potrebbe dire che la nazione, come anche l’identità nazionale, sono nella loro concretezza storica dispositivi ideologici nel senso marxiano del termine, cioè sono rappresentazioni ideologiche in cui «gli uomini e i loro rapporti appaiono capovolti come in una camera oscura» [Marx 1845-46/1972, p. 22]. Però, come è noto, «questo fenomeno deriva dal processo storico» della vita degli uomini, «proprio come il capovolgimento degli oggetti sulla retina deriva dal loro immediato processo fisico» [ibidem]. In questo senso, si cerca in questo libro di mostrare fino a che punto e con quali modalità avviene il capovolgimento ideologico.

Concretamente, nella prima parte il lettore troverà la critica al concetto dell’identità, per poi passare all’analisi della relazione tra tempo e nascita della nazione, partendo dalle osservazioni di Benedict Anderson, secondo cui è il tempo “omogeneo e vuoto” a governare i processi di genesi delle comunità immaginate. Poi il lettore incontra una rassegna selettiva dello stato dell’arte delle ricerche sulla problematica nazionale e sulla tematica del nazionalismo. Più precisamente, il discorso si sviluppa lungo le analisi storico-sociali di E.J. Hobsbawm, E. Gellner e in parte di A.D. Smith. La selettività si giustifica con la condivisione della tesi di M. Hroch, che ancora oggi le scienze sociali e umane sono lontane dallo spiegare in modo univoco ed esauriente tutti i «maggiori problemi di formazione delle nazioni moderne» [Hroch 1996, p. 78], per cui tutti i risultati e le conclusioni attuali sono solo scoperte parziali e «tutte le “teorie” vanno prese come progetti per le future ricerche» [ibidem]. Ovviamente, questo vale anche per il presente lavoro.





Va anche detto che nel libro i termini frontiera e confine sono utilizzati come sinonimi, poiché è convinzione che quando ci si trova sul terreno dell’analisi storico-sociale non è possibile parlare di confine come in geometria, cioè nei termini di una linea statica che semplicemente separa. La separazione, o il separare, nel mondo storico-sociale, cioè nella vita dell’uomo, implica sempre una relazione, e una relazione non è mai un rapporto statico. Infatti, la problematica della frontiera è analizzata alla luce del caso della Penisola Balcanica, terra dove — come mostrano anche indagini storico-antropologiche — le linee di divisioni identitarie sono estremante mobili e mutevoli. La questione delle pulizie etniche (che serbi e croati si sono più volte inflitti vicendevolmente), è letta e analizzata con particolare riguardo al caso greco-turco dello “scambio” di popolazioni, poiché in questo si riconosce l’esemplarità del paradigma valido per tutta l’aerea geografica nel senso più lato.

Più precisamente, nella seconda parte si cerca di applicare i risultati della prima attraverso l’analisi storica dei popoli costitutivi della Jugoslavia (in particolare dei serbi e dei croati), tenendo aperta anche una prospettiva balcanica più ampia. Il caso dei croati e dei serbi, conferma l’arbitrarietà e pericolosità dei processi identitari a cui si ricorre per legittimare la costruzione della comunità immaginata. Infine, si cerca di mostrare, come le nazioni che sono uscite dal crollo della Jugoslavia nella loro forma odierna siano state il prodotto di punti critici del sistema cosiddetto socialista. Si è cercato di mostrare (a grandi linee), come le distorsioni dell’autogestione, assieme alle crescenti differenze economiche, siano state un terreno fertile per i nazionalismi e i separatismi tra i popoli jugoslavi. Venuto meno il legame di solidarietà socialista, vi subentrava l’unità e “solidarietà” declinata in termini nazionali e nazionalisti. È, questo, un processo strettamente legato alla rinascita del capitalismo in quelle regioni. Le identità nazionali territoriali “cullate e allevate” dalle burocrazie locali hanno permesso a queste ultime di mantenere e trasformare il loro potere sociale e i privilegi nel potere economico nel momento del passaggio da un regime all’altro. Così, la nazione e il principio di nazionalità hanno svolto nel passaggio dal cosiddetto socialismo reale al capitalismo la medesima funzione che avevano avuto storicamente nel passaggio dal regime feudale a quello borghese; cioè quello di essere da una parte la base sociale per la conservazione della proprietà privata già esistente e dall’altra di fungere come uno strumento e un metro nella ridistribuzione delle risorse nel processo di creazione delle nuove proprietà. Il discorso nazionalista si rivela strumento di uno specifico tipo di accumulazione originaria di cui quella società aveva bisogno nel proprio passaggio dall’autogestione socialista e dalla proprietà sociale al capitalismo. La guerra degli anni Novanta — che esula dal tema del libro — in questo senso è la tragica conferma della tesi marxiana che il capitale «viene al mondo grondante sangue e sporcizia dalla testa ai piedi, da ogni poro» [Marx 1867/1980, p. 823]

Va anche sottolineato che una delle principali tesi di questo lavoro, che emerge forse solo a tratti, con andamento carsico, ma che in questa sede va esplicitata, è la convinzione antropologico-filosofica, che gli uomini non sono nati portatori di una sola identità (nazionale o altro), ma acquistano coscienza di identità varie, attraverso i processi di socializzazione. Non è una regola né un fatto naturale che gli uomini si sentano portatori di una sola identità, anzi l’esperienza conferma piuttosto il contrario. L’identità è un processo alla stregua delle relazioni da cui nasce. Questo vale per ogni tipo d’identità, sociale, linguistica, di genere e ideologica, come anche per quella nazionale, e se la storia dei serbi e dei croati (nonché dei Balcani in generale), insegna qualcosa, è proprio questo.

Infine, si auspica che il libro, anche se verte su un caso storico concreto, possa nel suo insieme suggerire al lettore indicazioni e conclusioni di validità più generale.

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Luka Bogdanić (1978) insegna Antropologia filosofica e Filosofia della Cultura alla Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Zagabria. Ha scritto di marxismo e dell’Est Europa su varie riviste. Collabora con il manifesto ed è membro dell’International Gramsci Society. Ha pubblicato Praxis. Storia di una rivista eretica nella Jugoslavia di Tito (2009), Nazione e autodeterminazione. Premesse e sviluppi fino a Lenin e Wilson (2009) e Identità inquieta. La questione nazionale nei Balcani occidentali (2020).