Dove si nasconde la sinistra italiana?

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Abbandonare l'ecumenismo elitista tanto quanto l'alibi velleitario: mappe per una sinistra smarrita.

Dopo la recente sconfitta elettorale del Pd, le voci critiche più oltranziste sullo smarrimento della sua identità politica e sul fallimento della linea strategica che ne ha ispirato la condotta fin dalla nascita, hanno già decretato la sua irrevocabile fine. Autoscioglimento, cambiamento di nome e di simboli, dimissioni in massa dei dirigenti nazionali: queste le sanzioni più severe dibattute dall’opinione pubblica, all’indomani del 25 settembre e alla vigilia dell’apertura del congresso nazionale. Nella sede del Nazareno, è stato già allestito un tribunale politico interno che, dopo aver processato Enrico Letta, sta coinvolgendo tutti gli assetti organizzativi del partito. I reati ascritti alla dirigenza del Pd sono di diversa natura, a seconda delle varie anime dei suoi organi dirigenti, ma tutti convergenti nell’imputazione delle cause prossime della disfatta elettorale: la sinistra dem rimprovera a Letta il mancato accordo con il M5S, mentre l’ala cosiddetta riformista lo accusa di una colpa eguale e contraria, cioè di aver determinato la rottura con il Terzo polo di Calenda e Renzi. Eppure, se ci si limita alla valutazione del risultato elettorale, le percentuali di voto registrate il 25 settembre non si discostano in maniera significativa da quelle ottenute nel 2018. Una conferma del fatto che la gravità della recente sconfitta politica non è misurabile con il metro contabile della sconfitta elettorale.
Perciò, è sempre più diffuso il timore che la via del riscatto non possa coincidere con l’indicazione di una nuova segreteria politica che limiterebbe il dibattito congressuale da una questione di riequilibrio  tra le correnti interne del partito, secondo una consuetudine rivelatasi politicamente ininfluente. Da Veltroni a Letta, sono stati sette (più i reggenti Epifani e Orfini) i segretari del Pd che si sono susseguiti dalla fondazione del partito nel 2007 fino all’addio di Nicola Zingaretti e l’elezione di Enrico Letta:  quindici anni di ricambi al vertice, intervallati da elezioni politiche, dimissioni e abbandoni. La caccia al nuovo capro espiatorio – oggi Letta, ieri e l’altro ieri Zingaretti e Renzi – procurerebbe soltanto l’illusione di una svolta, in realtà equivalente ad una sostanziale continuità di metodi e di strategie che prolungherebbe fino all’esaurimento o all’eutanasia il fallimento progettuale del maggior partito della sinistra italiana.



Si tratta in verità di una crisi che viene da lontano e che attiene alla stessa costituzione veltroniana del PD. Della fusione a freddo tra l’area della sinistra riformista e quella cattolico-democratica, non è rimasto che il sordo scontro tra correnti, con la conseguente trasformazione del PD nella brutta copia di una DC senza statisti, malamente amalgamata con i residui di un PCI senza il riferimento ad un blocco sociale del quale assumere la rappresentanza, preoccupato unicamente dell’equilibrio interno tra le élite dominanti: una democrazia di gruppi dirigenti che si sono distaccati dal loro popolo perché si considerano superiori a esso, in quanto dotati di una lungimiranza che li allontana e li contraddistingue dalla cecità delle pulsioni che agitano gli strati popolari della società italiana. In questo senso, il Pd si è perso nei meandri dei palazzi del potere, e, dietro l’alibi di “partito della responsabilità”, si è presentato come indefettibile forza di governo (e di sottogoverno).

Come ha rilevato recentemente Nadia Urbinati nelle sue analisi sulla sconfitta “storica”  della sinistra italiana, anziché rinverdire e coltivare le radici ideali del progressismo riformatore, rivendicando la propria identità di valori e di istanze democratiche intrinsecamente “parziali”, in quanto rappresentative dei bisogni e degli interessi degli strati popolari della società italiana, il Pd è stato sedotto dall’ideologia dell’«ecumenismo» democristiano: ha riprodotto, pur in assenza di grandi statisti, all’altezza dei compiti inediti dell’attuale complessità del panorama politico, l’ambizione nostalgica e totalizzante di un partito-Stato, che articola al suo interno, attraverso il sistema delle correnti, la rappresentanza dell’intero universo sociale, quasi allegoria del “bene comune” in versione plebiscitaria. Perciò, ogni riferimento alla peculiarità della propria storia e delle proprie ascendenze culturali e politiche, è stato intenzionalmente disatteso e sottaciuto, in quanto ritenuto “divisivo” e potenzialmente conflittuale. Di qui l’oblio sistematico nella teoria e nella pratica della strutturale “divisione in classi” delle società moderne, in nome di un interclassismo, che privilegia gli interessi della classe medio-alta, relegando in soffitta, tra le paccottiglie obsolete dell’uguaglianza – sancita solennemente nel 2° comma dell’art.3 della Costituzione italiana-, ogni riferimento all’emancipazione delle nuove figure del proletariato urbano.



È questa un’aporia che il PD si porta dentro fin dalle origini, a partire dal maanchismo del suo fondatore, Walter Veltroni. Questi, da appassionato ammiratore della politica americana – che ignora la struttura partitica permanente, caratteristica delle forze politiche europee – si era preoccupato di convogliare all’interno del Pd il distillato delle istanze ideali, un tempo nettamente distinte, (con-)fondendo in unico crogiuolo l’anima post-comunista ma anche quella cristiano-sociale.

Al contrario, la destra radicale italiana, già dal MSI ad Alleanza nazionale fino a Fratelli d’Italia, non ha mai cessato di rivendicare, in forme più o meno esplicite, la propria identità e la “parzialità” valoriale ereditata dalla genealogia post-fascista. Di qui la deriva mistificatrice del “revisionismo” e del “negazionismo storico” che ha finito per inquinare anche larghi settori della sinistra, con una lettura falsamente ecumenica e conciliante che di fatto ha cancellato ogni memoria della lotta di liberazione antifascista dalla quale è nata la Costituzione repubblicana. Una deriva negazionista e compromissoria in senso deteriore, esemplarmente documentata dal discorso di insediamento di Luciano Violante alla presidenza della Camera (aprile 1996), che volle parificare, sulla falsa riga di Ernst Nolte,  la lotta della resistenza partigiana alle ragioni dei «ragazzi di Salò», in nome di una pretesa “pacificazione” della guerra “civile italiana”. Una tesi che fa eco alle affermazioni di Marcello Pera, il quale, ancor prima di diventare presidente del Senato, sostenne che era tempo di finirla con la «Repubblica nata dalla Resistenza».





Tuttavia, se si guarda ai movimenti extraparlamentari, alla sinistra del PD, il panorama non è meno desolante. Evitiamo, per semplicità,  di inoltrarci nell’ingens sylva delle micro-formazioni con  aspirazioni pseudo-rivoluzionarie, destinate alla produzione di sempre nuove ramificazioni ed efflorescenze del sottobosco politico – come il Partito comunista neostalinista di Marco Rizzo, o il Partito comunista dei lavoratori di Marco Ferrando, che rivendica una sedicente ideologia neo-trotskista., o, infine il movimento Patria e Costituzione di Stefano Fassina, che si autodefinisce “sovranismo di sinistra”, declinando istanze prossime al rossobrunismo di Diego Fusaro.

Se, per opposte ragioni, si eccettuano altresì  i movimenti confluiti in Sinistra italiana, che costituiscono un arcipelago confinante con le correnti marcatamente riformiste del PD, in quanto generato dalle scissioni interne conseguenti alla “rottamazione” renziana (Articolo Uno, LeU, ecc.) resta da esaminare l’insuccesso delle formazioni più radicali, riunite in Unione popolare-Potere al popolo. Si tratta di un microsistema di partitini e associazioni ( tra cui DeMa, Manifesta, Potere al Popolo e Rifondazione Comunista, oltre a personalità della società civile) animato dall’ambizione di unificare le istanze più autentiche della sinistra extraparlamentare. Su tutti questi movimenti, che hanno frettolosamente organizzato le liste alla vigilia del voto, si staglia l’ombra ideologica del leaderismo populista. Un chiaro sintomo di questo fenomeno è costituito dalla presenza, già nel simbolo di Unione popolare, dell’indicazione del suo “capo politico” (sic !), Luigi De Magistris, ex sindaco di Napoli, e leader di un movimento la cui designazione deriva dalle prime due sillabe del suo nome (DEMA), e la cui segreteria politica fu affidata per alcuni anni al fratello, Claudio De Magistris.

L’agenda programmatica presentata da Unione popolare, articolata in proposte  improntate ad un utopistico richiamo in 12 punti agli ideali “perenni” della giustizia sociale, dell’eguaglianza e della pace nel mondo , non contiene alcun cenno sulle concrete strategie, sugli effettivi percorsi o sulle possibili alleanze che avrebbero reso praticamente realizzabili, nell’attuale contesto storico e geo-politico,  quei nobili ideali di democrazia partecipata. A meno che non si voglia assumere come proposta strategica “il rafforzamento dell’ONU”  sottraendo il Consiglio di sicurezza “ai veti incrociati delle superpotenze” o il “superamento della Nato, per la sovranità nazionale” con “l’impegno diplomatico per la pace in Ucraina” e “per un Europa unita nelle sue diversità, dal Portogallo alla Russia, contro ogni nuova guerra fredda” (punto III del programma elettorale). Questo astratto “ecumenismo” per “la pace perpetua”, in nome dell’amicizia universale con tutti i Paesi del mondo,  è giustapposto, nel programma, con l’ “aumento generalizzato di tutti i salari” (per un “salario minimo di 1600 euro mensili), unitamente alla“ riduzione dell’orario di lavoro” e la drastica “limitazione dei contratti a tempo determinato a 2 soli casi specifici (per circostanze straordinarie legate alla produzione)”, di contro all’attuale immensa prolificazione delle tipologie contrattuali (il  contratti collettivi nazionali di lavoro vigenti nel settore pubblico e privato, depositati nell’Archivio Nazionale dei contratti del CNEL alla data del 30 giugno 2022, sono complessivamente 1.010). Si tratta di proposte che,  nel loro intransigente massimalismo,  appartengono piuttosto al perimetro astratto delle finalità asintoticamente approssimabili  nella concreta prassi politica, molto più che alla determinatezza dei metodi e delle strategie effettivamente perseguibili e necessarie nella “lotta contro la povertà” (punto. I). Dall’allettante vaghezza di queste linee programmatiche discende infatti il deserto delle proposte autenticamente politiche, la cui astrattezza rimuove nell’oblio l’eredità della riflessione gramsciana sulla specifica congiuntura storica ( guerra di posizione/guerra di movimento)  nella quale i partiti di sinistra devono operare. Di qui, la costellazione di populismo sovranista e di statalismo neostalinista che ispira la condotta dei movimenti di sinistra,  incapaci di interrogare con spirito autocritico le ragioni profonde dei loro ripetuti insuccessi e della vertiginosa polverizzazione della loro base elettorale, nonostante le generose intenzioni di rappresentanza politica rivolte alla grande maggioranza dei lavoratori italiani. La prassi politica di questi movimenti si è risolta e dissolta in un compiaciuto isolazionismo, che si appaga della vuota astrazione di mere parole d’ordine e di gesti simbolici che non incidono sugli assetti reali delle dinamiche sociali. Una sinistra metodologicamente “dannunziana”, animata da un pregiudiziale anti-atlantismo di maniera, che ha dimenticato il senso della famosa intervista di Enrico Berlinguer al Corriere della sera del 1976, nella quale il leader comunista sosteneva la congiunturale necessità che l’Italia resti nel Patto atlantico, nonostante i limiti all’autonomia nazionale che esso impone. Questo elemento di saggezza pragmatica viene oggi sistematicamente cancellato nelle analisi della nuova sinistra a proposito della guerra in Ucraina. In esse riemergono piuttosto le tracce una speciosa giustificazione dell’aggressione compiuta dalla Russia autocratica di Vladimir Putin, sottesa da istanze ideologiche neo-staliniste dalle quali la tradizione storica della sinistra italiana, da Gramsci a Berlinguer, aveva preso nettamente le distanze.



Forse il compito più urgente per la sinistra che verrà consiste per l’appunto nell’emancipazione sia dagli schemi puramente retorici di un vuoto ecumenismo sociale, come alibi delle strategie esclusivamente governiste del PD, inerenti alla forma del partito-stato;  sia dai velleitari propositi rivoluzionari di una sinistra in formato subatomico, che si compiace dell’estremismo della volontà come alibi per l’irrilevanza politica di una pura, residuale testimonianza.