Il vero “allarme democratico” è la deriva clanica della società

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La questione non si esaurisce nel rischio dell'affermazione di una destra "illiberale": siamo all'erosione dei fondamenti della nostra democrazia.

Il dibattito sull’esistenza o meno di un “allarme democratico” in Italia è sembrato rianimare per qualche giorno una campagna elettorale che, come previsto, si sta rivelando tra le più sterili degli ultimi decenni, a fronte di una contingenza che, all’opposto, è tra le più drammatiche. Siamo sinceri: se non ci fosse la guerra in Ucraina, con le sue devastanti conseguenze sull’economia italiana ed europea, i leader dei partiti farebbero ancora più fatica a vendersi come paladini degli interessi dei cittadini e degli imprenditori italiani e rischieremmo, con ogni probabilità, tassi di astensionismo ancora più elevati di quelli prefigurati dai sondaggi. Il fatto poi che sfruttino il conflitto a proprio uso e consumo, rimuovendo dallo scenario le macerie delle città distrutte e i corpi dei civili e dei soldati massacrati, nonché le proprie responsabilità pregresse nell’aver contribuito a rendere così precaria la situazione energetica nel nostro paese, dà soltanto la misura della loro abilità comunicativa (e del loro cinismo).



Ora, non c’è alcun dubbio che un allarme democratico esista, ma se si esaurisse nell’eventuale affermazione di una destra illiberale e liberista alle prossime elezioni del 25 settembre potremmo ancora considerarci fortunati. Il vero problema, infatti, è che ormai da decenni stiamo assistendo a una radicale e continua erosione dei fondamenti stessi della nostra democrazia prodotta dalla rinascita delle subculture claniche e dal loro dilagare in ogni sfera della società, a partire proprio da quella politica. Lo dimostra, del resto, proprio la campagna elettorale in corso, in grande prevalenza giocata sulle faide tra fazioni, persino all’interno di uno stesso schieramento. (Vale la pena osservare, a margine, che siamo in buona compagnia: il nuovo Primo ministro britannico Elizabeth Truss, appena insediata, è stata accusata di aver scelto i membri dell’esecutivo soltanto all’interno della più ristretta cerchia di amici, al punto che il suo governo si è già meritato l’appellativo di “mafia di Greenwich”, dal nome del distretto in cui risiedono molti di loro.)

L’origine di questo vero e proprio processo di clanizzazione della nostra società va cercata in quello che definirei incivismo, mutuando un concetto tratto da una ricerca molto nota e dibattuta di Robert Putnam dal titolo La tradizione civica nelle regioni italiane (Mondadori, Milano 1994), che metteva in risalto come il “senso civico” contribuisca a determinare la qualità delle istituzioni democratiche e come la sua carenza, più ancora del divario economico, spieghi il minore sviluppo delle regioni meridionali rispetto a quelle del nord. A scanso di equivoci, il termine uncivic (tradotto nell’edizione italiana, forse per un eccesso di cautela, con l’espressione “meno civico”) non va inteso come un sinonimo di “incivile”, che possiede una connotazione valoriale molto alta, perché riferito a popoli che mostrano un grado di civiltà materiale e spirituale molto basso o a persone che manifestano comportamenti contrari alla buona educazione. “Incivico”, piuttosto, fa riferimento – per citare un vecchio articolo di Albert Hirschman sulla complessità del discorso economico – alla “tensione esistente tra il sé e gli altri, tra l’interesse personale, da un lato, e la moralità pubblica, il servizio a favore della comunità, o persino il sacrificio personale, dall’altro”, che è presente in tutte le società, a prescindere dal loro grado di civiltà. La plausibilità di una simile distinzione trova conferma nel fatto che essa viene recepita sia nella lingua francese (che distingue incivilité da incivisme) sia in quella spagnola (che, analogamente, possiede i termini incivilidad e incivismo).



In Italia, questo dilemma tra bene pubblico e interesse privato raramente si è risolto a favore del primo termine, come dimostrano una storia ormai consolidata di corruzione sistemica e quella vera e propria patologia di massa che è l’evasione fiscale, con i suoi corollari della semplice elusione e delle frodi organizzate. Su questo humus sociale ha potuto attecchire con estrema facilità la rinascita dei clan. Detto in altri termini, l’odierna clanizzazione delle relazioni sociali non è altro che la forma organizzativa assunta dall’incivismo: un diverso modo di intendere i rapporti tra pubblico e privato che riduce la società a un’arena nella quale si confrontano e scontrano interessi di parte in competizione tra loro. Con la politica che, anziché proporsi di conciliarli per il raggiungimento di un bene collettivo superiore, li gioca uno contro l’altro a proprio esclusivo vantaggio.

Il problema è che non tutti i gruppi che incarnano questi diversi interessi di parte possono contare su pari risorse e analogo potere di contrattazione (la libera concorrenza non funziona nel mercato, figuriamoci in politica). Per questa ragione le mafie, dotate come sono di un potere di intimidazione e di mezzi finanziari illimitati, non hanno avuto grosse difficoltà a infiltrarsi nell’economia e nella società di tutte le regioni del nostro paese. L’unico vero ostacolo è stato rappresentato dall’iniziativa della magistratura e delle forze dell’ordine. Lo dimostra, se non ne foste convinti, la totale assenza del tema della lotta alla criminalità organizzata nella campagna elettorale in corso, a fronte di uno stillicidio quasi quotidiano di cronache giudiziarie che vedono il coinvolgimento di mafiosi, politici e amministratori e persino personaggi del mondo dello spettacolo.





Il ritorno del clan, la sua rivalsa nei confronti della democrazia, trova poi un’ulteriore manifestazione nella diffusione crescente in diversi contesti urbani delle gang giovanili, un fenomeno che ci si sforza di far rientrare nella categoria (riduttiva e consolatoria) delle devianze sociali invece di affrontarlo per quello che realmente è: una forma alternativa – e, certo, in alcune sue manifestazioni criminale – di auto-organizzazione di adolescenti in cerca di un senso di identità e di appartenenza che le istituzioni democratiche non si sono dimostrate capaci di offrire loro, evidentemente dimentiche della propria funzione di inclusione sociale.

E, infine, come altro spiegare il dilagare nel nostro paese dei femminicidi – che dall’incivismo ci conducono all’inciviltà – se non anche con la riscoperta di una concezione patologicamente tribale dei rapporti tra generi? I troppi uomini che uccidono le donne, oltre a poter essere affetti da patologie psichiatriche individuali, sono anche spesso il prodotto di subculture claniche intrise di maschilismo e violenza che i processi di democratizzazione non sono mai riusciti a debellare del tutto (ammesso che ci abbiano realmente provato).