Ernst Bloch, Speranza e utopia. Conversazioni 1964-1975

Categorie: Il Rasoio di Occam

Un'esplorazione dell'utopia di Ernst Bloch attraverso le conversazioni intrattenute con l’amico György Lukács, Theodor W. Adorno e altri.

Noi viaggiamo in una terra ignota”: è questo il monito che Ernst Bloch ripete a più riprese nel corso della sua opera filosofica e letteraria, vasta ma anche spesso poco fruibile per il lettore non specialista per colpa di uno stile decisamente peculiare, che potrebbe essere definito “espressionista”. Il territorio ancora inesplorato, pur essendo presente in ogni carta del mondo che meriti di essere considerata, è la città di Utopia. Una bussola preziosa per orientarsi meglio all’interno di questo spazio ci è oggi fornita dal testo titolato appunto Speranza e utopia. Il volume raccoglie le conversazioni intrattenute da Bloch nell’arco temporale che va dal 1964 al 1975, e che vede protagonisti, insieme a lui, altri giganti del pensiero occidentale, come l’amico degli anni di gioventù György Lukács o il “francofortese” Theodor W. Adorno. Già il titolo del libro – con i due concetti di speranza e utopia avvinghiati l’un l’altro come fratelli siamesi – trasmette un messaggio forte e al contempo apparentemente inattuale in un mondo che sembra aver rinunciato definitivamente al Prinzip Hoffnung (Principio Speranza). Intorno a questo nodo si stringe una costellazione di motivi: la questione dei sogni ad occhi aperti, le immagini dei desideri, le dinamiche dell’attesa, le aspirazioni rivoluzionarie e le manifestazioni artistiche (solo per citarne alcuni).



Del resto, è proprio all’interno delle coordinate di speranza e utopia che si colloca la riflessione di Bloch, a partire dalla sua prima opera, espressionista, Spirito dell’utopia (1918-‘23), fino a Experimentum Mundi (1975), passando attraverso le sofferte pagine di Eredità del nostro tempo.

È lo stesso Bloch a ricostruire in modo colloquiale e chiaro, sulle occasioni di questi incontri, la trama della sua riflessione filosofica, e a presentare al pubblico la sua officina, con tutto il suo armamentario, con i suoi strumenti di lavoro. Indagare il retrobottega del laboratorio blochiano significa in primo luogo interrogarsi sulla materia di cui è intessuta la speranza, e come sua variante, l’utopia.



In linea con la sua poetica, di chiara impostazione espressionista, Bloch espone sullo stesso tavolo di lavoro la cultura popolare (densa di legende, detti, motti di spirito), il Tesoretto dell’amico di casa renano di Hebel, insieme alla costruzione filosofica di Hegel o di Kant. Le sue riflessioni rivelano insospettate affinità tra i fratelli Grimm e il materialismo marxista, tra la Bibbia e la mitologia o la psicanalisi junghiana; lavorano sulle connessioni tra il suo vissuto autobiografico e i profondi eventi storici che hanno segnato la sua epoca; ricostruiscono in un “multiversum” temporale nuove connessioni tra presente, passato e futuro.

E così, uno dei fili rossi che saldano la congiuntura tra speranza e utopia va ricercato nelle letture d’infanzia, nelle righe dei romanzi di Karl May, che allietavano con un favoloso Far West le altrimenti tediose giornate trascorse dal giovanissimo filosofo nella cittadina industriale di Ludwigshafen. Ma Bloch combina quelle immagini memoriali di tempi lontani, in un’ardita costellazione, con i concetti mutuati dalla filosofia di Schopenhauer, con i testi del classicismo tedesco, divorati cum ira et studio nella biblioteca del castello di Mannheim, sotto i dipinti di Tiepolo (pp. 12-13).





Nel procedere blochiano è ancora la pittura dell’espressionismo a fornire la cifra dell’utopia, l’opera artistica di Franz Marc e di Vasilij Vasil’evič Kandinskij, tanto osteggiata da Lukács, e invece salutata con entusiasmo in quelle scintillanti pagine di Spirito dell’utopia dedicate alla “produzione dell’ornamento”. Bloch non ha dubbi: l’oggetto della pittura espressionista è la Selbstbegegnung (incontro con sé stessi), il riconoscimento della propria essenza e origine, in quanto essenza e origine del mondo. D’un tratto si riconosce nell’oggetto la propria origine inaccessibile e il mondo invisibile che lo anima fa sentire la propria eco.

Seguendo la stella polare dell’espressione, Bloch riconosce nella musica il luogo privilegiato del plesso “utopia-speranza”. La tensione verso l’espressione del sé, che nelle altre forme artistiche è solo accennata o in latenza, si condensa nel suono in tutta la pregnanza utopica. La musica – soprattutto quella di Beethoven – restituisce il “sogno di una cosa”, e proprio per questo è da lui considerata come l’arte rivoluzionaria per eccellenza. Nel suo permanere aperto, il suono è infatti per Bloch una spedizione verso la nostra dimensione più profonda, verso lo strato più profondo di noi stessi. Non è un caso se, in diversi luoghi della sua opera, Bloch paragona la speranza a una “fuga musicale”, a una polifonia che si svolge in diversi luoghi e tempi ma che, in questo Multiversum stratificato, cerca l’unisono.

Certo, i sentieri tracciati dall’utopia sono diversi e spesso impervi. Talvolta seguono traiettorie già battute, ma più frequentemente attraversano i territori poco esplorati dalla filosofia accademica dei cosiddetti “sogni a buon mercato”. Si tratta di quelle prospettive di una better life che fanno presa nella buona borghesia (l’esperienza americana, durante l’esilio, deve aver influenzato queste riflessioni blochiane), e che continuano a plasmare i dispositivi pubblicitari e le fantasmagorie della merce.

La realtà dell’utopia va ricercata nel sogno ad occhi aperti come motore per cambiare lo stato di cose, nell’inconscio da intendersi come non-ancora conscio. Sotto la bandiera dell’utopia, Bloch inserisce autori apparentemente molto lontani tra loro come Platone, Tommaso Moro, Campanella, Owen, Fourier, Saint-Simon, Bacone con le sue utopie tecniche, ma anche Marx, Lenin e il loro “sogno di una cosa” (p. 32). A tutti loro viene riconosciuto un debito teorico. Se però tradizionalmente l’utopia era considerata come una fantasticheria, un non-luogo, in Bloch è invece un’isola “che s’innalza nel mare del possibile non soltanto quando ci andiamo, ma mentre ci andiamo” (p. 45). Come a dire che la meta (l’utopia) è già kafkianamente nel percorso, basta saperne riconoscere le tracce.

L’idea di fondo identifica nella speranza un “principio di movimento”, un tendere a qualcosa, un “andare verso”, e quindi non un atteggiamento passivo (come la fiducia), ma piuttosto concretamente attivo, dinamico. Bloch si richiama alla immagine della docta spes (una significativa variante della docta ignorantia di Nicola Cusano) da intendersi come “utopia concreta, non visionaria o lambiccata (…) bensì mediata con la realtà” (p. 30). Per spiegare il concetto di utopia concreta, tuttavia, si richiama spesso a un’opera scolpita da Andrea Pisano nel Battistero di Firenze, in cui l’immagine femminile che la personifica tende le braccia verso l’alto, come per afferrare qualcosa. Un’attesa quindi o meglio un attendere innervato di tensione, di anelito verso le possibili dinamiche di svolta (la tendenza in latenza).

Ciò significa anche che la speranza, al centro della filosofia di Bloch, paradossalmente non riguarda tanto il futuro – come nelle concezioni classiche – quanto il presente. Un assunto del teatro di Bertolt Brecht, che consiste nell’“etwas fehlt (qualcosa manca)” – e che è al centro del dibattito con Adorno presentato in questo volume –, rivendica proprio la presenza di una latenza, la mancanza come pungolo del movimento. In questo senso un’espressione blochiana molto significativa è quella dell’“opacità dell’attimo vissuto”, con cui ci si riferisce al fatto che la nostra esistenza è costellata di intermittenze oscure che aspirano a una maggiore chiarezza, a una forma di riconoscimento, di aspettato ricongiungimento. È all’opera, in altre parole, l’enigma che sigla la nostra essenza, l’humanum absconditum, il volto celato. Di fatto la vita corrisponde per Bloch a un percorso in direzione dell’incontro con sé stessi, a un progetto di ritrovamento del proprio sé in una dimensione comunitaria. È questo, per Bloch, il senso più autentico (utopico e rivoluzionario) del concetto di “Heimat”: la necessità di uscire dallo stato di alienazione in cui siamo invischiati, o di recuperare quella carica espressiva che era traccia dell’umano, e che è venuta meno nell’epoca della riproducibilità tecnica. A questo in fondo serve la speranza, o – per dirla con una sua variante – il coraggio del pensiero.

 

 

Ernst Bloch, Speranza e utopia. Conversazioni 1964-1975, a cura di Rainer Traub e Harald Wieser, trad. it. di Eliano Zigiotto, rivista da Laura Boella, Mimesis, Milano-Udine 2022.