Il rifiuto di riconoscere il “concorso esterno” è negazionismo politico

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Le dichiarazioni di Nordio si inseriscono in una lunga tradizione politica di delegittimazione della lotta alla mafia.

Il 19 luglio ricorre l’anniversario della morte di Paolo Borsellino e dei poliziotti che erano con lui in via d’Amelio: Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina ed Emanuela Loi, una delle primissime donne assegnate a un servizio di scorta.
Quest’anno però la ricorrenza ha rischiato di essere avvelenata dalle polemiche innescate da quella specie di ircocervo (un misto di Marchese del Grillo e don Chisciotte) di cui sembra talora voler assumere le sembianze il Guardasigilli Carlo Nordio. Che contro il concorso esterno in associazione mafiosa si è esibito in ripetute esternazioni davvero stupefacenti, sostenendo che il reato non esiste nel Codice penale.



Forse Nordio crede di essere originale, ma è storia vecchia e ormai rancida. C’era una volta che la mafia addirittura non esisteva. Lo proclamavano fior di cardinali, procuratori generali e notabili assortiti. Poi più nessuno ha avuto la spudoratezza di negare l’esistenza della mafia tout court. Ma nello stesso tempo si è registrata la sconsiderata tendenza a negare almeno il “concorso esterno” in associazione mafiosa, presentandolo come un reato di pura fantasia giustizialista che non esiste nel codice. Tesi questa che ha trovato in Silvio Berlusconi – anche in veste di presidente del consiglio – uno dei fautori più convinti. Pronto a sostenere che “a Palermo la nostra magistratura comunista, di sinistra, ha creato un reato, un tipo di delitto che non è nel codice; è il concorso esterno in associazione mafiosa”. In sostanza, la stessa tesi che Nordio ripropone oggi.
Senonché qualunque studente del primo anno di giurisprudenza anche solo sfogliando un manuale di diritto penale è in grado di capire che la figura del concorso esterno nell’associazione mafiosa altro non è che una delle tante applicazioni concrete del concorso di persone, previsto in astratto dall’articolo 110 del Codice penale. Perciò, non uno “strappo” alle regole dell’ordinamento penale. Chi strepita e sproloquia contro il “concorso esterno” non sa bene quel che dice. O lo sa fin troppo bene…

Perché non è possibile (se non mettendosi fuori della realtà) ignorare che la vera forza della mafia non è la sua struttura gangsteristica. Il suo autentico potere sta altrove: nelle complicità, collusioni e coperture di soggetti non “punciuti”, che non sono “uomini d’onore” che hanno giurato per la vita fedeltà alla mafia; sono soggetti fuori dell’organizzazione, che però coi mafiosi ci fanno affari, ricambiati. E l’unico strumento investigativo-giudiziario che consente di intervenire anche su questo versante è appunto il “concorso esterno”.
Disconoscerne addirittura la configurabilità è l’anticamera di un processo che punta a negare l’esistenza stessa di ogni intreccio di rapporti tra mafia e politica. Determinando di fatto una legittimazione di tali rapporti (non solo per il passato, ma anche per il presente e il futuro). Una legittimazione estremamente pericolosa per la buona salute della nostra democrazia.



In altre parole, si cerca di far passare una rilettura surreale e improponibile in chiave di “riduzionismo/negazionismo” dei rapporti mafia-politica. Tali rapporti sarebbero in pratica “inventati” da indagini “creative” e quindi inquinate. Si tratterebbe al massimo di un fenomeno localistico, articolatosi quasi soltanto sul terreno degli appalti pubblici per motivazioni di tipo meramente economico, addebitabili agli appetiti di singoli esponenti del ceto politico- amministrativo. Una “mala-politica” locale che non avrebbe mai contaminato quella nazionale.
Per contro, la lettura degli atti e delle sentenze dei processi “politici” del dopo stragi, ad esempio, quelle di Andreotti e Dell’Utri in particolare: il primo dichiarato dalla corte d’appello di Palermo – confermata in cassazione –  responsabile del delitto di a associazione con Cosa nostra per averlo commesso fino al 1980 (commesso ma prescritto), il secondo, condannato in via  definitiva a 7 anni di reclusione per concorso esterno in associazione  di tipo mafioso, non sancisce affatto la cronaca di una modesta e arretrata realtà periferica, ma i tempi – appunto – della storia nazionale: spesso con i connotati di una tragedia incombente, che sembra quasi destinata a ripetersi ciclicamente anche con orrende cadenze di morte.
Ora, che un ministro (per di più della Giustizia) non riconosca questi dati di fatto è cosa, a dire davvero poco, incredibile e sconcertante.







CREDITI FOTO Governo Italiano, Presidenza del consiglio dei ministri