Il “giornalismo civile” e l’inchiesta di Fanpage sulla Lobby nera

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Paolo Berizzi, giornalista di Repubblica sotto scorta per le minacce dei gruppi di estrema destra, analizza l’inchiesta “Lobby nera” di Fanpage.

Lobby nera è il titolo, azzeccatissimo, dell’inchiesta video di Fanpage che ha travolto Fratelli d’Italia (nella prima puntata) e la Lega (nella seconda). Ne è emerso un quadro inquietante, con esponenti di forze politiche e associazioni che si rifanno al fascismo e al nazismo che hanno ormai occupato tutti i livelli di governo, dai Consigli di Zona di Milano fino a Montecitorio, passando per Comune di Milano, Regione Lombardia ed Europarlamento. In un Paese normale, dove per “normale” si intende un Paese che abbia fatto fino in fondo i conti con il proprio passato, avremmo già assistito a dimissioni, a passi indietro, a prese di distanza da parte dei vari leader politici. E invece no. In Italia a essere messi sotto accusa sono i giornalisti di Fanpage. E allora poniamo le stesse obiezioni all’inchiesta giornalistica che in queste ore stanno muovendo esponenti di Fratelli d’Italia e Lega a Paolo Berizzi di Repubblica, unico giornalista in Europa – a proposito di Paese “non normale” – a vivere sotto scorta per minacce ricevute da neofascisti e neonazisti.



Prima obiezione mossa, nello specifico da Giorgia Meloni in un video pubblicato sui social della leader di Fratelli d’Italia, a Fanpage: “Questo non è giornalismo”.
Questa affermazione è semplicemente stupida. Quello di Fanpage, al contrario, è vero giornalismo. Il giornalismo cerca la verità e per farla uscire può utilizzare modalità come quelle del giornalismo investigativo sotto copertura. Chi parla di “investigazioni mascherate da giornalismo” – diamo per assodata la buonafede, cosa non scontata – conosce poco del giornalismo, della sua funzione, dell’utilità del giornalismo nei Paesi dove la libertà di informazione, e l’informazione stessa, sono una pietra angolare della democrazia. Perché il giornalismo è, come amo definirlo, un “mestiere civile”. Uno dei più importanti. Ora, grazie a Fanpage, vedo confermato tutto ciò che denuncio e scrivo da tempo. Fa piacere che anche altri adesso se ne occupino. Più siamo e meglio è. Il problema non è l’informazione che denuncia, il problema è la presenza dei fascisti nelle istituzioni democratiche.

Sempre Meloni: “Strano che questa inchiesta sia arrivata proprio a ridosso delle elezioni comunali”.
Ormai le reazioni dell’opinione pubblica, della politica, dei leader politici davanti alle inchieste giornalistiche, al nostro lavoro, sono noiosamente sempre uguali. Quando si fa un buon lavoro di scavo, ingrandimento, e si portano alla luce storie che qualcuno vorrebbe restassero nei fondali della società, o come in questo caso nel retrobottega della politica, si grida al complotto, all’inchiesta a orologeria. In fondo sono le stesse dinamiche che per anni leader politici di primo piano hanno usato davanti alle inchieste della magistratura. Ecco, questa è la novità: prima si puntava solo il dito contro i magistrati, ora anche contro i giornalisti. Non mi sorprende che qualcuno parli di inchieste “stile procura”. Il problema vero, uno dei tanti paradossi del discorso pubblico italiano, è che non si punta quasi mai il dito contro la gravità del fenomeno, ma contro chi fa conoscere quel fenomeno.



Fanpage ha montato tutto questo baraccone solo per farsi pubblicità e per avere clic sul proprio sito.
Qui invece il tentativo, maldestro, è di ridurre il lavoro giornalistico a interessi economici, mortificando e denigrando in qualche modo il lavoro stesso dei colleghi. In questo Paese manca semplicemente il rispetto nei confronti del lavoro di chi fa informazione.

Ora una mia critica, ma non a Fanpage bensì al sistema mediatico e politico. Non c’è niente che non sapevamo già in questa inchiesta [Qui un intervento sul tema del direttore di Fanpage, Francesco Cancellato]. Quindi, qual è il suo valore?
Effettivamente hai ragione. Fanpage ha ricostruito storie, nomi, legami, collegamenti, dinamiche che, personalmente, racconto e indago e porto quotidianamente alla luce da quasi venti anni. In questo caso, quel milieu neofascista, o in alcuni casi persino neonazista, milanese/lombardo che ha tra i suoi protagonisti occulti Jonghi Lavarini, con le sue sponde con le istituzioni, e dall’altra con la peggiore estrema destra milanese. In questo scenario si agitano i capi delle curve ultrà di Milano fino ad arrivare a esponenti delle famiglie criminali della ‘ndrangheta calabrese che operano nell’hinterland milanese. Ne scrivo fin dagli anni duemila: chi voleva vedere queste cose aveva già la possibilità farlo. Non sono novità. Ma la potenza delle immagini deve farci dire “grazie” ai colleghi di Fanpage che hanno permesso a un pubblico più largo di quello che normalmente legge i giornali, i libri, la carta in generale, di conoscere fatti, storie, e come il neofascismo stia facendo sponda con i partiti sovranisti. E viceversa.





Nella prima puntata di Lobby nera esponenti di primo piano di Fratelli d’Italia, al momento di una foto durante un aperitivo elettorale, dicono “Berizzi” al posto di “cheese”. Cosa hai provato davanti a quelle immagini?
So che mi pensano sempre, E so perfettamente, se conosco il mondo dell’estrema destra, e indagandolo da molto tempo penso di conoscerlo almeno un po’, che quel brindisi è un invito ai camerati a mettermi nel mirino. Detto ciò, anche quel brindisi mi lascia indifferente, non mi spaventa, ma lo vedo come l’ennesima dimostrazione del fatto che il mio lavoro dà molto fastidio a neofascisti e neonazisti. In questi anni mi sono abituato a ben peggio rispetto a un brindisi in cui incitano i commensali al momento della fotografia di rito con “dite Berizzi, dite Berizzi”.

Lobby nera – facciamo finta di parlare di una serie tv e non di un’inchiesta giornalistica – ha come location Milano e come protagonisti esponenti lombardi dell’estrema destra, di Fratelli d’Italia e della Lega. Ma, cambiando forse i personaggi, potremmo ambientare la stessa scena a Roma, a Verona, a Trieste…
La location potrebbe essere l’Italia intera. Da anni sia Fdi che la Lega condividono temi, campagne, slogan, zone di contiguità con l’ultradestra italiana. Accade a Milano, a Reggio Calabria, a Roma, a Verona, a Brescia. Quando iniziai a scrivere di fascioleghismo mi dicevano che esageravo, che la Lega non aveva nulla a che fare con i fascisti. In realtà si è poi scoperto che quel termine era calzante. Quel partito è diventato qualcosa di molto diverso rispetto alla Lega Nord di Bossi, che non aveva problemi a definirsi antifascista. La Lega di Salvini, come abbiamo visto su Fanpage, è ormai un partito ascrivibile alla destra estrema europea.
Fdi è un caso ancora più emblematico e rappresentativo. Il partito di Giorgia Meloni ha un enorme problema: ha al suo interno dirigenti, esponenti di primo piano, deputati, europarlamentari, consiglieri regionali, assessori, militanti, fino a semplici simpatizzanti, che non solo non hanno mai rinnegato il fascismo, ma che inneggiano al regime. Un esempio: Fdi nel 2019, in provincia di Ascoli Piceno, ha organizzato una cena celebrativa della Marcia su Roma. A quella cena parteciparono settanta persone, tra cui l’attuale presidente della Regione Marche, Francesco Acquaroli, pupillo di Giorgia Meloni, e il sindaco di Ascoli Piceno, Marco Fioravanti. Entrambi, dopo che la notizia diventò pubblica, provarono a prendere le distanze da quella cena. Ma sul menu c’era il simbolo di Fdi, la frase “28 ottobre, una data indelebile della nostra storia”, il disegno del fascio littorio.

Per Giorgia Meloni, quindi, è più difficile prendere le distanze da certi personaggi e, soprattutto, rinnegare il fascismo di quanto non lo sia per Salvini?
Per Giorgia Meloni significherebbe rinnegare la storia, le radici, le origini del suo partito, che affonda nella tradizione fascista. Dentro Fdi ci sono fascisti dichiarati. L’ultimo caso che posso portare come prova è il neoeletto consigliere comunale di Trieste, Corrado Tremul, che due anni fa andò a Predappio facendosi immortalare con una mano sul busto bronzeo di Mussolini. Con l’altra, ovviamente, era intento a fare il saluto romano. Anche lui ha provato a prendere le distanze da quel gesto, ma quella stessa mano che ha posato sul busto di Mussolini la userà per giurare sulla Costituzione antifascista della nostra Repubblica quando si insedierà come consigliere comunale.
Salvini ha invece giocato a fare il fascista, e il giochino gli è riuscito. Non ha però una storia che affonda la sua tradizione nel fascismo. Il suo è stato un mero calcolo elettorale. L’obiettivo era occupare a destra lo spazio lasciato vuoto dal tramonto di Alleanza Nazionale. Ora, con la crescita di Fdi, i gruppi neofascisti hanno smesso di guardare al “capitano” sovranista. Anche perché, dobbiamo dirlo, è più facile per un neofascista dialogare con un La Russa rispetto a un Giorgetti.
Per dirla con una battuta: si è inceppata la ruspa, ma non il manganello.

Dalle immagini di Fanpage emerge come oggetto di scambio politico siano, forse più dei seggi, i posti negli staff di consiglieri regionali, europarlamentari e via dicendo.
Esattamente. Per capire a chi risponde un certo candidato, quale accordo politico lo ha portato a essere eletto, dobbiamo scandagliare la composizione del suo staff, a partire dai cosiddetti “portaborse”. La strategia è ovvia: io ti porto voti, tu mi dai “posti di lavoro”. Nell’inchiesta di Fanpage emerge il legame tra la Lega e Lealtà Azione, una formazione neonazista, il cui nucleo originario ruota intorno agli Hammerskin, una rete transnazionale naziskin che nasce negli Usa da una scissione del Ku Klux Klan. La stessa cosa è accaduta con membri di Casapound in Fratelli d’Italia.

Chiudo con una domanda di “cultura neofascista”. Una delle cose a mio avviso più raccapriccianti di tutta l’inchiesta di Fanpage è la facilità con cui si vedono esponenti di Lealtà Azione dire: “Usiamo la distribuzione dei pacchi alimentari alle famiglie in difficoltà per fare campagna elettorale per la Lega”. E, può sembrare un dettaglio minore visto l’impatto dell’intera inchiesta, ma Fanpage sarebbe da ringraziare anche soltanto per aver finalmente portato il Banco Alimentare a sospendere la convenzione con la struttura caritativa che ha ceduto i pacchi a Lealtà Azione (anche in questo caso, teoricamente, si sapeva già tutto come scritto da Altreconomia).
Questi sono i neofascisti, degni eredi di quel Mussolini che faceva leva sulle fasce deboli della popolazione per costruire consenso. Usano il “welfare nero” per far vedere che i fascisti sono buoni, vicini alla gente, mentre lo Stato si preoccupa solo degli immigrati, degli stranieri. E invece i fascisti pensano “prima agli italiani”. Che, guarda un po’, è lo slogan di Matteo Salvini. Loro sono quelli che distribuiscono i pacchi alimentari, fanno le ronde per la sicurezza, che hanno sempre una risposta semplice a un problema complesso. Ma, stranamente, si preoccupano “prima degli italiani” sempre a ridosso di una campagna elettorale.