Appunti sulla nuova classe ecologica

Categorie: Filosofia, Rubriche

In ricordo di Bruno Latour appena scomparso, ripubblichiamo alcuni estratti dal volume Mémo sur la nouvelle classe écologique.

Lotte di classe e lotte di posizionamento



A quali condizioni l’ecologia, invece di essere un insieme di movimenti tra tanti altri, potrebbe diventare il perno attorno al quale organizzare la politica? Può aspirare a organizzare la politica come l’hanno fatto, in altri periodi, il liberalismo, i socialismi, il neoliberalismo e più recentemente i partiti illiberali o neofascisti il cui ascendente non smette di crescere?

Può imparare dalla storia come emergono i nuovi movimenti politici e come vincono la lotta per le idee, ben prima di poter tradurre i loro progressi in partiti ed elezioni?



C’è un’urgenza oggi di dare più consistenza e più autonomia all’ecologia, visto il crollo dell’“ordine internazionale”, l’immensità della catastrofe in corso, l’insoddisfazione generale rispetto all’offerta politica dei partiti tradizionali rivelata tra l’altro dall’ampiezza dell’astensione. Ora, esistono dei movimenti ecologici e addirittura dei partiti che fanno dell’ecologia la loro bandiera, ma non sono certo questi a definire, nel loro modo e nei loro propri termini, il fronte della lotta che permette di individuare l’insieme degli alleati e degli avversari nel paesaggio politico. Molti decenni dopo il loro sorgere, essi restano dipendenti da vecchie opposizioni, il che limita la loro ricerca di alleanze e diminuisce la loro libertà di manovra. Se vuole esistere, l’ecologia politica non deve lasciarsi definire dagli altri e deve individuare essa stessa e per se stessa le nuove fonti di ingiustizia e i nuovi fronti di lotta.

Dato che si appoggiava su una natura conosciuta dalla scienza ed esterna al mondo sociale, l’ecologia politica si è basata per troppo tempo su una versione pedagogica della sua azione: una volta conosciuta la gravità della situazione, l’azione sarebbe seguita inevitabilmente. Eppure, è chiaro oggi che l’appello alla “protezione della natura”, anziché sedare i conflitti o spostare l’attenzione dai conflitti sociali, li moltiplica. Dai gilets jaunes in Francia alle manifestazioni dei giovani, dalle proteste degli agricoltori in India alle comunità autoctone che resistono al frazionamento dell’acqua in Nord America o alle dispute sull’impatto delle vetture elettriche, il messaggio è chiaro: i conflitti proliferano. Parlare di natura non è più firmare un contratto di pace: è riconoscere l’esistenza di una moltitudine di conflitti su ogni soggetto possibile dell’esistenza quotidiana, a tutti i livelli e su tutti i continenti. Anziché unificare, la natura divide.





Curiosamente, le preoccupazioni ecologiche – almeno il clima, l’energia e la biodiversità – sono diventate onnipresenti. La moltitudine dei conflitti non ha, almeno per ora, preso la forma di una mobilitazione generale come hanno potuto farlo nei secoli passati le trasformazioni innescate dal liberalismo e dal socialismo. Per il momento, sembra che sia l’immensa diversità dei conflitti a impedire di dare a queste lotte una definizione coerente. In realtà questa diversità non è un difetto, ma una qualità. Questo perché l’ecologia è impegnata in un’esplorazione generale delle condizioni di vita che sono state distrutte dall’ossessione della sola produzione. Perché il movimento ecologico migliori la sua consistenza e autonomia, e perché si traduca in uno slancio storico comparabile a quelli del passato, bisogna riconoscere, abbracciare, comprendere e rappresentare efficacemente il suo progetto, riassumendo tutti i conflitti in un’unità d’azione comprensibile da tutti. Per fare ciò, bisogna prima di tutto accettare che l’ecologia implichi la divisione; poi fornire una cartografia convincente dei nuovi tipi di conflitti che essa genera; infine definire un orizzonte comune per l’azione collettiva.

Se è vero che l’ecologia è allo stesso tempo dovunque e da nessuna parte, è anche vero che, da un lato, si apre una situazione di conflitti su tutti i soggetti, e dall’altro, regna una sorta di indifferenza, di irenismo, di attesa e di falsa pace. Ogni rapporto del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc) provoca reazioni scomposte ma, come i canti guerrieri “Marciamo, marciamo prima che sia troppo tardi”, non sposta i cuori se non di qualche metro. Se è dunque di importanza capitale riconoscere uno stato di guerra generalizzata, bisogna però ammettere che, per il momento, è difficile tracciare frontiere nette tra amici e nemici. Su innumerevoli argomenti siamo noi stessi divisi, al tempo stesso vittime e complici. Mentre nel secolo precedente si potevano tracciare, anche se in modo grossolano, i conflitti di classe che permettevano, per esempio, di votare per partiti dalle ideologie riconoscibili, è difficile fare la stessa cosa oggi finché lo stato di guerra ecologica non verrà chiarito.

Come possiamo parlare di conflitti di classe, se è la classe ecologica a non essere chiaramente definita?

Fa sempre un po’ paura riutilizzare la nozione di “classe”. È per questo che bisogna resistere alla tentazione di invocare così com’è la nozione di “lotta di classe”, pur riconoscendo che essa ha potuto, nell’ultimo secolo, rendere un grande servizio unificando e semplificando le mobilitazioni. Il vantaggio di questa nozione era di permettere la delimitazione della struttura del mondo sociale e materiale, facendo avanzare le dinamiche politiche in termini di conflitti sociali e di formazione di esperienze e orizzonti collettivi. Il suo ruolo nel corso della storia era al tempo stesso descrittivo e performativo: se pretendeva di descrivere la realtà sociale permettendo alle persone di posizionarsi nel paesaggio in cui abitavano, non era mai separata da un progetto di trasformazione della società. Parlare di “classe” significa dunque sempre prepararsi alla battaglia. Allo stesso modo, parlare di far emergere una “classe ecologica” significa inevitabilmente offrire una nuova descrizione e delle nuove prospettive di azione. Di qui l’utilità di riutilizzare il termine, anche se porta con sé molta confusione.

Se è difficile riutilizzare la nozione di “lotta di classe”, questo è perché essa è diventata, a causa della questione ecologica, una lotta di posizionamento. Nessuno è d’accordo su ciò che definisce la classe di cui fa parte. Persone che appartengono alla stessa classe (nel senso sociale e culturale classico) si sentono completamente estranee nel momento in cui sorgono conflitti ecologici; inversamente, altri riconoscono come “compagni di lotta” degli attivisti che appartengono, dal punto di vista sociale e culturale, a tutt’altre forme di vita. Di qui l’effetto di disorientamento che spiega in gran parte la brutalizzazione attuale della vita pubblica: sugli argomenti ecologici gli alleati così come gli avversari non sono chiaramente allineati. Il che fa arrabbiare. Per far emergere una classe ecologica, bisogna dunque accettare questa lotta di posizionamento e trovare distinzioni che attraversano, e a volte ricalcano, i tradizionali conflitti di classe. Malgrado l’ombra proiettata dalla tradizione della lotta di classe, l’ecologia politica non può fare a meno di questa incertezza di appartenenza di classe. E deve continuamente farsi delle domande: “Quando le discussioni virano sull’ecologia, con chi vi sentite vicini e da chi vi sentite terribilmente lontani?”. L’emergenza di un’eventuale “coscienza di classe” ha questo prezzo.

Una prodigiosa estensione del materialismo

Come abbiamo visto, se vuole rendersi autonoma, l’ecologia deve dare un senso nuovo al termine “classe”. Per il momento, la classe ecologica teme sempre di non sapersi situare in relazione alle lotte dei due secoli precedenti. Per esempio, si lascia intimidire facilmente dall’accusa di non essere abbastanza “di sinistra”. Fino a quando non chiarirà questo punto, non sarà mai in grado di definire le sue battaglie da sola. Eppure, c’è una grande continuità storica con le lotte sociali per resistere all’economicizzazione di tutti i legami. Proprio perché contesta la nozione di produzione, bisogna dire che la classe ecologica amplifica considerabilmente il rifiuto generale di autonomizzare l’economia a spese della società. In questo senso, senza alcun dubbio, l’ecologia politica è un progetto di sinistra, anzi, di sinistra al quadrato!

L’apporto della definizione marxista di classe si trova nella comprensione delle condizioni materiali di cui le condizioni sociali non sono che l’espressione. Se la bussola di Marx era utile, è perché si basava su una descrizione relativamente chiara dei processi necessari alla continuazione della società. Essa comincia con la descrizione dei meccanismi attraverso i quali le società si riproducono; poi classifica il modo in cui gli attori si situano in modo antagonista in questo processo di riproduzione. È in questo senso che l’analisi in termini di classe può dirsi materialista. Se la classe ecologica vuole ereditare da questa tradizione, deve dunque accettare questa lezione di tradizione marxista e definirsi anch’essa in rapporto alle condizioni materiali della sua esistenza. La nuova lotta di classe deve basarsi su un approccio altrettanto materialista di quella vecchia. È su questo punto essenziale che c’è continuità.

Ma in realtà non si tratta più della stessa materialità. È da ciò che deriva la discontinuità relativa tra le tradizioni socialiste e quel che bisogna far emergere oggi. Così come c’è un conflitto di posizionamenti, c’è un conflitto a proposito di cosa costituisce un’analisi materialista delle condizioni di esistenza. La sopravvivenza e la riproduzione umane erano per Marx il principio primo di tutte le società e della loro storia. Così, la tappa iniziale di ogni analisi della società umana e della storia sociale consisteva necessariamente nel render conto delle condizioni materiali che permettevano alle società e ai collettivi umani di sussistere – quello che gli umani mangiavano, l’acqua che bevevano, i vestiti che portavano, le case in cui vivevano eccetera – e dei processi che le avevano fatte nascere. Era la produzione di queste condizioni materiali di riproduzione che Marx considerava come il fondamento della storia sociale. Ma si trattava prima di tutto della riproduzione degli umani. Oggi ci troviamo in una configurazione sociale completamente differente. Non siamo più nella stessa storia. La produzione non definisce più il nostro solo orizzonte. E soprattutto, non ci troviamo più di fronte alla stessa materia.

Cosa succede quando è la definizione stessa di esistenza materiale a cambiare? Pensando quasi esclusivamente in termini di produzione e riproduzione, la bussola socialista non può rendere conto della maniera in cui il paesaggio delle classi cambia oggi di forma. Come accadde con la nascita della civiltà meccanica, il Nuovo Regime Climatico ci obbliga oggi a ridescrivere i processi attraverso i quali le società si riproducono e continuano a esistere. Ancora una volta: “Tutto ciò che aveva solidità e permanenza se ne va in fumo”. Come nel XIX secolo, assistiamo a una trasformazione enorme dell’infrastruttura materiale delle società. E questo ci obbliga a non basarci più solamente sulle vecchie descrizioni per rispondere alle domande su come i collettivi continuano a sussistere, come i loro mezzi di sussistenza a lungo termine possono mantenersi e come la loro storia debba essere scritta. L’analisi in termini di classe ecologica resta materialista, ma deve volgersi verso altri fenomeni al di là della sola produzione e riproduzione umana.

Giusto dopo la Seconda guerra mondiale, questi sistemi di produzione hanno visto una accelerazione così forte da destabilizzare i sistemi della Terra e del clima. Cosa che i termini “Antropocene” e “Grande Accelerazione” riassumono abbastanza bene. Assistiamo ora al processo per cui le mutazioni climatiche intensificano e metamorfizzano in maniera drammatica le forze che assicurano la continuità e la sopravvivenza delle società. Il sistema di produzione è diventato sinonimo di sistema di distruzione. Cosa significa un’analisi marxista che si concentri anche sulla riproduzione dei non umani? Essere materialista oggi vuol dire considerare, oltre alle condizioni materiali favorevoli alla riproduzione umana, le condizioni di abitabilità del pianeta Terra. Queste obbligano a considerare non solo ciò che l’economia politica dei partiti tradizionali cercava di semplificare sotto il nome di risorse, ma una nuova realtà materiale del pianeta. L’economia dirigeva la sua attenzione verso la mobilitazione delle risorse in vista della produzione, ma esiste un’economia capace di rivolgersi al mantenimento delle condizioni di abitabilità del mondo terrestre? In altri termini, smetterla con questa attenzione esclusiva alla produzione per reinquadrarla nella ricerca delle condizioni di abitabilità? È tutta qui la sfida della nuova classe ecologica. Su questo punto è chiaro che la discontinuità è grande con la tradizionale “lotta di classe”.

Questo disaccordo sull’analisi materialista delle classi permette in fondo di comprendere a che punto l’analisi in termini di classe ecologica prolunghi e rinnovi le lotte tradizionali della sinistra, ma a suo modo. Bisogna scostarsi da questa attenzione esclusiva alla produzione in modo da amplificare la resistenza della società (per riprendere l’espressione di Karl Polanyi) all’economicizzazione. Certe lotte del XX secolo erano evidentemente ispirate dalla tradizione marxista, ma molte altre erano condotte semplicemente nel nome del rifiuto dell’estensione della produzione e contro questa pretesa insopportabile che essa ha sempre avuto di separarsi dal resto della vita sociale. Come dice Lucas Chancel: «L’abolizione della schiavitù, la sicurezza sociale, il diritto di voto per tutti, l’educazione gratuita non sono questioni di organizzazione della produzione materiale». Erano le espressioni vitali dell’impossibilità per una società umana di lasciarsi definire dalla sola economia. Di conseguenza, criticare certi limiti del materialismo di ispirazione marxista permette anche di rinnovare le molteplici tradizioni di lotta contro l’economicizzazione.

Si può dire che, più o meno, la classe ecologica può dunque rivendicare, amplificandola, la storia della sinistra emancipatrice. Il segno di questa ripresa evidente è che oggi i militanti ecologisti si fanno assassinare più spesso dei sindacalisti.

Il grande ribaltamento

Riassumendo la situazione attuale, possiamo dire che abbiamo tutti ormai capito che ci vuole un’azione decisiva per contenere la catastrofe, ma che mancano i legami, la motivazione e la direzione che permetterebbero di agire. Si parla anche troppo di “rivoluzione” e di “trasformazione radicale”, di “collasso”, ma si vede bene che niente riesce a tradurre queste angosce in un programma di azione mobilitante all’altezza delle sfide. In questo senso, l’appello all’azione non assomiglia in nulla a quello che i nostri predecessori possono aver conosciuto in tempi di guerra, o durante gli episodi di ricostruzione, di sviluppo e di globalizzazione. Oggi, la certezza della catastrofe sembra piuttosto paralizzare l’azione. In ogni caso, manca l’allineamento istintivo tra le rappresentazioni del mondo, le energie da liberare e i valori da difendere. Tutti gli istinti sono invece volti verso la “ripresa”, nell’identico vecchio modo di concepire la produzione. Il dovere della classe ecologica è di diagnosticare l’origine di questa paralisi e di cercare un nuovo allineamento tra le angosce, l’azione collettiva, gli ideali e il senso della storia.

Si comincia a comprendere il senso di paralisi quando ci si accorge che la direzione stessa dell’azione è all’inverso. Per semplificare, possiamo dire che le energie, da due secoli, si mobilitano facilmente quando si tratta di accrescere la produzione e di rendere un po’ meno ingiusta la distribuzione delle ricchezze ottenute.

Certo, i conflitti tra le diverse forme di liberalismo e le tante tradizioni socialiste sono stati innumerevoli, ma si svolgevano su un accordo completo di fondo che l’obiettivo fosse quello di aumentare la produzione. I disaccordi vertevano più che altro sulla giusta distribuzione dei suoi frutti. Lo sviluppo andava sicuramente nel senso della storia, e si poteva contare sempre sulle energie che la parola d’ordine “Avanti” liberava. Oggi, vista dal vecchio modello, la parola d’ordine sembra essere piuttosto: “Indietro tutta!”. Bruscamente, l’aumento della produzione, la nozione stessa di sviluppo e quella di progresso sembrano delle aberrazioni alle quali bisogna porre rimedio. Associare la produzione alla distruzione delle condizioni di abitabilità del pianeta comporta una crisi nelle capacità di mobilitazione. Non è dunque sorprendente che l’enormità delle minacce previste dagli esperti abbia così pochi effetti pratici. È il bagaglio mentale, morale, organizzativo, amministrativo, giuridico, così a lungo associato allo sviluppo, che gira a vuoto perché era fatto per dirigere l’attenzione verso ciò che è diventato un’impasse. Oggi, la direzione degli affari è visibilmente cambiata, ma il nuovo bagaglio che permetterebbe di passare all’azione non è stato ancora elaborato. Si resta con l’angoscia, il senso di colpa e l’impotenza. Il ruolo della classe ecologica è di fornire questo bagaglio.

L’inflessione decisiva è di dare la priorità alle condizioni di abitabilità del pianeta e non allo sviluppo della produzione. In questo senso, non si tratta soltanto di limitare il “produttivismo”, ma, come chiede Dušan Kazik, di abbandonare del tutto l’orizzonte della produzione come principio di analisi delle relazioni tra umani e tra umani e ciò da cui imparano a dipendere. Infatti, l’inconveniente dell’attenzione esclusiva alla produzione era di ridurre tutto ciò che è necessario al suo movimento al semplice ruolo di “risorsa”. Ora, il pianeta generato dai viventi nel corso dei millenni circonda, avvolge, permette, autorizza molto più che delle risorse per l’azione umana. Come mostra la lunga storia della Terra, sono i viventi che hanno permesso la continuità dell’esistenza terrestre che hanno loro stessi creato lungo miliardi di anni: clima, atmosfera, suolo, oceani compresi. Il sistema di produzione non è che una parte e nemmeno la più importante di questo insieme: da centrale, è diventato marginale; la periferia ha invece preso tutto lo spazio. Il sistema di produzione si trova infatti incastonato, avvolto in tutta un’altra organizzazione che fa volgere l’attenzione sulle pratiche che favoriscono la generazione necessaria al mantenimento delle condizioni di vita o che le distruggono. Produrre è assemblare e combinare, non generare, ossia far nascere con cura la continuità degli esseri da cui dipende l’abitabilità del mondo. Invece della strana metafora dello sviluppo, sarebbe più utile, per captare questo ribaltamento, parlare di avvolgimento: tutte le questioni pratiche sono avvolte, impacchettate nelle pratiche di generazione da cui dipendono. Noi siamo abituati a comprendere la crescita come il solo modo di farci uscire dai guai dimenticando le distruzioni che essa provoca, quando invece la prosperità è sempre dipesa da pratiche di generazione. Non si tratta di “decrescere”, ma finalmente di prosperare. Eppure, nessun riflesso condizionato, nessun istinto, nessun affetto traduce ancora un tale ribaltamento al punto da essere diventato parte del nuovo senso comune.

Una classe di nuovo legittima

La classe ecologica è dunque quella che prende in carico la questione dell’abitabilità. Per questo possiede una visione più ampia, più lunga, più complessa della storia e anche della geostoria. Quello che sembrava all’inizio un passo indietro, un movimento verso il passato, quasi una posizione “reazionaria”, diventa ora un’immensa espansione della sensibilità alle condizioni necessarie alla vita. Per questo la classe ecologica entra in conflitto con le vecchie classi che sono state incapaci di comprendere le condizioni reali del loro progetto. Né il liberalismo né il socialismo avevano preso in seria considerazione le loro condizioni di abitabilità – e i neofascisti ancora meno. In questo senso, la classe ecologica, perché vede più lontano, perché prende in considerazione un maggior numero di valori, perché è pronta a battersi per difenderli su un maggior numero di fronti, può considerarsi come più razionale delle altre classi, nel senso che Norbert Elias diede a questo aggettivo. Essa aspira a riprendere il processo di civilizzazione che le altre classi hanno abbandonato o tradito. In ogni caso, si tratta proprio di che seguito dare alla civiltà.

Questo riorientamento deve essere chiarito al più presto, perché il tradimento delle classi dirigenti ha liberato in reazione numerosi movimenti, che hanno cominciato a rivendicare un attaccamento all’identità ricercando la protezione all’interno di frontiere più o meno strette secondo il vecchio modello della “terra dei morti” 1. Ora, il territorio, definito così limitatamente, è ancora più lontano dalla direzione da prendere, perché la negazione delle condizioni di abitabilità è in esso ancora più radicale del sogno della globalizzazione in cui le vecchie classi dirigenti pretendevano di ospitare la modernizzazione. Il suolo dei reazionari è ancora più astratto e sterile di quello dei globalizzatori. È definito solamente dall’identità, dai morti e non dagli innumerevoli viventi che gli danno consistenza. La classe ecologica deve dunque battersi almeno su due fronti: contro la globalizzazione illusoria e contro il ritorno delle frontiere interne, perché entrambi i movimenti sono sconnessi dalla questione dell’abitabilità. Nei due casi, essa è obbligata a ridefinire la natura dei territori, di tutto ciò che circonda, permette, limita e controlla la produzione. È ridistribuendo diversamente l’esterno e l’interno che la classe ecologica può sperare di convincere altri settori delle vecchie classi a stringere un’alleanza per scoprire nuovi modi di promuovere i loro interessi.

Un disallineamento degli affetti

Nel secolo scorso, i valori mobilitanti per eccellenza erano la prosperità, l’emancipazione e la libertà. Appena si agitavano le bandiere, si designavano dei bersagli, anche il più mite dei cittadini si credeva un eroe di guerra. Questi valori si accompagnavano a emozioni potenti che entusiasmavano le vecchie classi nell’idea dello sviluppo della produzione e nelle promesse di ricchezza e libertà che brillavano sotto i loro occhi. Come possono entusiasmarsi se si dice loro che questi valori di prosperità, di emancipazione e di libertà devono essere completamente rifondati? Fino a quando non si saranno riorientate queste emozioni, l’ecologia sarà sempre interrotta nel suo avanzare dalle accuse di essere noiosa, limitante, di farci ritornare indietro. Come può dare il segnale d’allarme e pretendere di mobilitare le folle “in avanti”, fedele alle tradizioni “progressiste”, quando è proprio il progresso che mette in causa? Non potrà mai resistere all’etichetta di “ecologia punitiva”. Dirigersi verso il mantenimento delle condizioni di abitabilità non è ancora associato con nulla di entusiasmante. Dov’è la prospettiva di prosperità? La promessa di proseguire nel cammino di emancipazione? Come mantenere l’ideale di libertà? Come passare bruscamente dalle promesse dello sviluppo a quelle ancora vaghe dell’avvolgimento? Ce n’è abbastanza per raffreddare qualsiasi velleità di mobilitazione.

Si capisce dunque che, per il momento, la mobilitazione tanto attesa è insieme inevitabile e costantemente ritardata. Gli affetti non sono allineati al punto da creare degli automatismi. E ciò che è terribile è che ci manca il tempo per metterli uno per uno nel buon ordine. Ci sono voluti molti secoli perché i liberali e poi i socialisti inventassero i riflessi condizionati che sono diventati gli ingranaggi della mobilitazione per lo sviluppo. Senza questo rinnovo delle componenti della cultura comune si è creata un’immensa distanza tra i valori associati alle vecchie classi sociali e quelli che sembra promuovere la nuova classe ecologica. Non impegnandosi abbastanza in queste battaglie, quest’ultima non ha liberato la cultura politica dalla sua gamma troppo stretta di sentimenti, di arte, di opere, di temi, di immagini, di racconti. Essa manca crudelmente di un’estetica capace di nutrire le passioni politiche suscitate dalle classi che essa combatte. Il “Great Derangement” [il “grande squilibrio” tradotto in italiano con “la grande cecità”] di cui parla Amitav Ghosh non sembra ancora averla toccata abbastanza! Per il momento, l’ecologia politica riesce solo a diffondere panico e a far sbadigliare dalla noia. Di qui la paralisi dell’azione che troppo spesso suscita.

Un altro senso della storia in un altro cosmo

Se si continuano a esplorare le fonti di questa impotenza ad agire collettivamente si trovano, oltre al disallineamento degli affetti, due elementi che spiegano in gran parte questi atteggiamenti problematici di colpevole rassegnazione, d’inquieta inerzia, di vaghe velleità, tutte queste passioni tristi così caratteristiche dell’epoca. Tutto succede come se noi esitassimo sul senso della storia che ci dovrebbe guidare oggi. E, per aggiungere una complicazione, non siamo rassicurati dalla natura, o meglio dalla consistenza del mondo nel quale dobbiamo passare all’azione. La natura ci è diventata straniera. Letteralmente “non siamo più a casa”. Malgrado i movimenti e i contro-movimenti delle epoche precedenti, si può dire che si “sapeva dove si andava” perché ci si modernizzava. E in più, cosa immensamente rassicurante, le epoche precedenti potevano contare su un mondo materiale stabile, prevedibile e conosciuto. Condividere queste certezze significava poter reagire rapidamente ai primi segnali d’allerta.

La cosa più inquietante per la classe ecologica è che deve discutere anche del senso, dell’idea di un solo senso della storia. L’obbligo di far convergere il mondo di cui viviamo con il mondo in cui viviamo costringe a pensare il senso della storia non come un movimento in avanti, alla maniera dei Moderni che divisero in modo netto tra passato e futuro, ma come la moltiplicazione dei modi di abitare e di prendersi cura delle pratiche di generazione, nella completa indifferenza rispetto a ciò che appartiene al passato, al presente o al futuro. La storia non è dunque più concepita come un raduno in un fronte coerente che disegna la famosa e unica “freccia del tempo”, ma come una dispersione in tutte le direzioni che cattura e ripara ciò che il vecchio senso della storia aveva cercato di semplificare troppo.

L’unità di azione dei periodi precedenti – almeno come noi li immaginiamo retrospettivamente – era permessa dal fatto che non c’era per i Moderni che un solo mondo materiale conosciuto dalla Scienza. Ora, la fonte dell’inquietudine attuale è che non siamo più chiamati a reagire in questo stesso mondo. Per parlare come gli antropologi, abbiamo cambiato cosmologia. È la dura esperienza dell’attuale pandemia che permette di rendersene conto al meglio. Lo stupore di una civiltà obbligata ad aggiustarsi alla presenza di un virus nuovo sottolinea l’incapacità di reagire abbastanza in fretta al Nuovo Regime Climatico. Davanti a questo Nuovo Regime siamo altrettanto indigenti degli antichi “selvaggi” colpiti dalla modernizzazione che devastava il loro mondo. Ormai i “selvaggi” disadattati, sottosviluppati, incapaci di reagire allo choc di questa “demodernizzazione” siamo noi!

Conquistare il potere, ma quale?

Tutta la storia dei movimenti sociali mostra che ci vuole molto tempo per far allineare, anche approssimativamente, le maniere, i valori, le culture con la logica degli interessi; poi individuare amici e nemici; poi sviluppare una coscienza di classe e infine inventare un’offerta politica che permetta alle classi di esprimere i loro conflitti in una forma istituzionale. La lotta delle idee precede dunque inevitabilmente di molto il processo elettorale. È illusorio pensare che ci si possa gettare nelle elezioni trascurando l’enorme preparazione che permette il riconoscimento dei potenziali alleati e degli avversari. Senza questo lavoro, i successi elettorali, anche se sono utili a titolo di apprendimento e di propaganda, non potranno estendersi di molto. In ogni caso, a cosa servirebbe occupare lo Stato senza avere dietro di sé delle classi abbastanza preparate e motivate ad accettare i sacrifici che il nuovo potere, in lotta col regime di produzione, dovrà imporre loro?

Lo schieramento della classe ecologica soffre di un problema non abituale nella storia sociale: è volto su due fronti opposti. Da un lato, esso deve voler conquistare il potere contro le classi che lo occupano oggi e che hanno fallito; dall’altro deve voler modificarne completamente l’organizzazione. Certo, ogni classe prevede di smantellare l’organizzazione amministrativa della classe precedente che trova troppo sfavorevole ai propri interessi. Ma fin qui si trattava sempre, in fin dei conti, di ripartire diversamente, di amplificare, di riorganizzare le forze produttive o, più raramente, di ripartirne più giustamente i profitti. I leninisti speravano forse nel “superamento dello Stato” ma, allo stesso tempo, contavano sull’inevitabile crescita delle forze di produzione: non c’era una tensione reale. Come immaginare l’organizzazione di un potere che si costruisce contro la produzione e dunque si gira indietro per dirigersi verso i suoi vecchi margini?

Cambiare la cartografia? Cambiare le misure? Non solo i rapporti tra l’esterno e l’interno sono sconvolti, ma l’uso della metrica classica che permette di passare dal locale al globale ha perduto tutto il suo senso. Questo modello cartografico nasce con la produzione e si sviluppa con essa. È questo pericoloso cambio di scala che è imposto dai bisogni della produzione che struttura tutti i rapporti secondo la domanda “Is it scalable?”. Ma le pratiche di generazione vanno in un altro senso e domandano tanti strumenti di misura quante sono le situazioni. La lotta che Anna Tsing chiama «scalabilità» diventa dunque centrale. L’ecologia non è né locale né globale, ma tutte le scale e le sue metriche variano in funzione dell’oggetto di studio e di ogni oggetto di disputa. Non può continuare a essere paralizzata dal localismo o, inversamente, dalla brutale necessità di “crescere di generalità” secondo i vecchi modi di pensare la società o la natura come un tutto. Essa deve sviluppare i suoi propri modi di comporre dei collettivi e di formare delle “totalità”. Lezione che il virus ci ricorda tutti i giorni! Ma a condizione di riprendere lo spazio pubblico dal basso, cioè, dalla descrizione del mondo materiale in cui si trovano gli abitanti, scacciati dalla loro vecchia cosmologia in un’altra che non hanno ancora imparato a esplorare. È in questo senso che la classe ecologica riprende la tradizione materialista. Ripercorriamo a ritroso tutta la catena: per votare ci vogliono dei partiti, bisogna che le lamentele siano riunite, formalizzate e definite in programmi; perché ci siano lamentele c’è bisogno che ognuno possa definire i propri interessi in modo da tracciare il fronte dei potenziali alleati e degli avversari; ma come avere degli interessi se non si può descrivere con sufficiente dettaglio le situazioni concrete nelle quali ci si trova immersi? Se non sapete da cosa dipendete come potete sapere come difendervi? Ora, questa prima tappa manca a causa della rapidità e soprattutto dell’ampiezza della mutazione in corso. Per cui, il resto non segue. È dunque dalle radici che bisogna cominciare: dalle grassroots.

È attraverso una nebbia spessa che riusciamo a indovinare l’emergenza di questa nuova classe ecologica. Di qui l’utilità di cercare dei paralleli, sia guardando alla storia delle classi sociali e culturali sia andando a pescare nel processo di civilizzazione, confrontando le sue battaglie per definire la classe politica attraverso le battaglie della classe borghese al tempo in cui essa sembrava essere il vessillo della ragione moderna. Va da sé che tutto avverrà diversamente. Per questo bisogna essere pronti a cogliere le occasioni impreviste.

A forza di fare la lista di tutti i punti su cui bisognerà lavorare insieme per far sorgere questa famosa coscienza di classe, si potrebbe trarre la triste conclusione che c’è talmente tanto da cambiare su questioni così diverse, che la classe ecologica non avrà mai nessuna chance di competere con le attuali classi dirigenti. In più le manca il tempo. D’altro canto, tutto forse si è già giocato perché, in fondo, le persone hanno ben compreso di aver cambiato mondo, di abitare un’altra Terra. Come ha detto Paul Veyne, i grandi cambiamenti della storia sono a volte altrettanto semplici dei movimenti che facciamo per giraci nel letto.

(traduzione dal francese di Gloria Origgi)

1 Gli autori si riferiscono al famoso discorso di Maurice Barrès dal titolo La Terre et les Morts (1899) che lega l’identità francese alla memoria dei morti, n.d.t.


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