Bambino di 5 anni muore annegato in un fiume in Bosnia: cercava di raggiungere l’Europa con la sua famiglia

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Dove sono quelle persone che, dopo la tragica immagine del piccolo Alan Kurdi, si sono indignate per le politiche migratorie europee?

Lungo i muri della fortezza Europa un fiume che scorre in un tratto pianeggiante può essere un punto buono per provare la lotteria.  The game è il nome che le persone migranti bloccate in Bosnia da mesi, o in alcuni casi da anni, hanno dato al tentativo di superare il confine e arrivare a Trieste, arrivo simbolico in un’Europa meno pericolosa di quella balcanica, prima di riprendere il cammino verso Nord.



Il 30 luglio la “lotteria” non è stata benevola. Nei pressi di Novi Grad è morto un bambino di cinque anni, scivolato dalle braccia del padre mentre – insieme agli altri quattro fratelli – provava a guadare il fiume Una, che per molti chilometri funge da confine naturale tra la Bosnia-Erzegovina e la Croazia. Le ricerche sono durate un’ora circa e la rianimazione da parte dei sanitari è stata vana.

Il fiume Una alterna increspature tra le rocce a tratti più calmi e pianeggianti, dove migliaia di persone provano sistematicamente il game affidandosi a trafficanti che poco possono contro la militarizzazione di quel confine, oppure a mappe inviate da qualche amico che è riuscito ad arrivare a Trieste o è già in Germania. “Questa volta è quella buona” ti dicono spesso i minori non accompagnati che viaggiano a gruppi di dieci, pronti a iniziare il game. Tomorrow game bro, see you in Italy è un’altra frase ripetuta spesso, un mix di ottimismo e speranza.



Chi passa il fiume lo fa con le ultime o con le prime luci del giorno, sperando di poter percorrere i metri non coperti dagli alberi senza essere visti dai militari appostati sulla sponda europea. Chi riesce a guadarlo ha due strategie: camminare di notte guidato da un gps e una piccola torcia, oppure farlo di giorno in mezzo ai boschi. I giovani uomini che viaggiano in gruppi spesso scelgono la prima, mentre le famiglie scelgono la seconda opzione perché la notte con i bambini è pericoloso procedere. Altri passano dalle montagne più a Ovest, verso Bihac, dove la strada è più dura ma i vecchi rifugi montani offrono riparo notturno.

In ogni caso il risultato per oltre il 90 percento delle persone è negativo: alla pericolosità del fiume e alla fatica delle montagne si aggiungono “ostacoli” come termoscanner, droni, militari mimetizzati lungo i sentieri e una imprecisata quantità di mine antiuomo, regalo della guerra che fece implodere la Jugoslavia e ridisegnò i confini dei Balcani, pronte a detonare sotto i piedi di chi scappa proprio da bombe e guerra. Su questa rotta si incontrano principalmente afghani che sono fuggiti dai talebani e dal conflitto. Sono soprattutto hazara, una minoranza etnica che compone circa il 10 percento della popolazione afghana: sono sciiti e per questo perseguitati. Scappano verso l’Iran dove la lingua e la religione sono le stesse, ma le autorità sono severe con chi è senza documenti. Molti quindi preferiscono seguire il sogno europeo, attraversando la Turchia e da lì alla volta della Grecia, dell’Albania, del Kosovo, della Serbia per poi bloccarsi in Bosnia, respinti dalle polizie italiane, slovene e croate.





Oltre settemila chilometri percorsi in modo non lineare, a volte in tre anni, a volte in cinque. Alcuni provano a cambiare strada andando verso la Romania, ma la Fortezza Europa è impenetrabile anche da lì.

Al momento c’è un’inchiesta in corso da parte delle autorità bosniache per capire la dinamica che ha portato alla morte del bimbo di cinque anni. Quello che è certo è che in questa Europa stanca del fenomeno migratorio non c’è nemmeno più un’opinione pubblica pronta a reagire, come fece dopo la morte di Alan Kurdi, bambino trovato morto sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia. Di questo bambino al momento non abbiamo un nome, non c’è una foto a smuovere le coscienze e soprattutto non c’è un’opinione pubblica che senta il dovere di indignarsi.




La soluzione per la situazione migratoria in Bosnia c’è e si chiama “corridoio umanitario”: intervista a Paolo Naso, coordinatore di Mediterranean Hope