Né Meloni, né Salvini: fu Berlusconi il vero sdoganatore dei post-fascisti

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Si “piange” il Berlusconi “grande federatore del centrodestra”. Ma fu proprio lui a far tornare sulla scena pubblica le camicie nere.

“Manca il grande federatore”. Dopo il primo turno delle elezioni Comunali 2021, in diverse analisi abbiamo letto e in diversi studi televisivi abbiamo ascoltato questa definizione di Silvio Berlusconi nello spiegare perché il centrodestra non sia riuscito a sfondare. Effettivamente, da quando Berlusconi non è più in prima linea stiamo assistendo a un movimento in termini di consenso elettorale che fa da spola tra Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Nessuno dei due, però, sembra essere in grado di trainare una possibile alleanza. Se sale uno, scende l’altra. E viceversa. Al centrodestra manca la leadership che fu del Cavaliere? Certo. Ma, oggi più che mai, con i fatti di Roma – la piazza “No Green pass” guidata da Forza Nuova e l’assalto della Cgil – dovremmo analizzare come Silvio Berlusconi abbia rivestito quel ruolo di federatore.



Nelle ultime settimane Forza Nuova e, in generale, le realtà di estrema destra hanno trascinato sotto i riflettori prima la Lega di Matteo Salvini e poi Fratelli d’Italia. L’inchiesta di Fanpage (prima e seconda puntata) ci ha restituito un quadro fedele della realtà che conoscevamo, certo, ma che ancora non era stata sbattuta sotto gli occhi del “grande pubblico”. L’assalto alla Cgil ci ha mostrato il vero volto di queste realtà, che non si limitano certo ad accordi con queste due forze politiche ma – di fatto – continuano a fare il solito “lavoro sporco” nelle retrovie che, ormai, tanto più retrovie non sono. Giusta la lettura di chi, come il vicesegretario del Partito democratico, Giuseppe Provenzano, ha sottolineato le difficoltà che ha Giorgia Meloni nel “tagliare i ponti con il mondo vicino al neofascismo, anche in Fratelli d’Italia” (ne ha parlato chiaramente Paolo Berizzi in questa intervista a MicroMega). Discutibile invece l’analisi dell’“evidente passo indietro rispetto a Fiuggi”, riferendosi alla decisione di Gianfranco Fini, anno 1995, di sciogliere il Movimento Sociale Italiano di cui era segretario per fondare Alleanza Nazionale. L’obiettivo di Fini: abbandonare i riferimenti ideologici al fascismo e qualificarsi così come forza politica legittimata a governare. Ma senza fare minimamente i conti con il passato che si faceva semplicemente presente.

Quel giorno, era il 27 gennaio, Fini mise in pratica le teorie di Domenico Fisichella, da sempre “filo-monarchico ma non fascista”, che di An sarebbe poi diventato cofondatore, quindi presidente fino al 2005 per poi sbarcare, oplà (!), nelle fila della Margherita di Francesco Rutelli. Obiettivo: portare il Msi verso la destra conservatrice ed europea. Solo la minoranza legata a Pino Rauti si chiamò fuori dalla partita, creando il Movimento Sociale Fiamma Tricolore. Per fare questa operazione di “sdoganamento” di chi fino al 26 gennaio 1995 ha basato tutta la sua attività politica intorno alla figura di Benito Mussolini, serviva però un “nuovo duce”. Serviva un Silvio Berlusconi. Quel virgolettato, “nuovo duce”, è tutt’altro che azzardato ma arriva direttamente dalla piazza che a Napoli, il 7 aprile 2006, accolse così il leader dell’allora Casa delle Libertà per la chiusura della campagna elettorale che lo vide sconfitto contro Romano Prodi.



Otto mesi dopo, il 2 dicembre 2006, a San Giovanni va in scena la manifestazione organizzata dalla Casa delle Libertà contro il governo Prodi. Ed è ancora il grido “Duce, Duce” a riecheggiare tra la folla. Sul palco, insieme a Berlusconi, ci sono – come ricostruito in un saggio dal titolo “Berlusconi, a noi!” (Guido Caldiron e Giacomo Russo Spena, MicroMega 2/2011) – anche Alessandra Mussolini (ovviamente) e Luca Romagnoli, segretario della Fiamma ed ex europarlamentare che solo pochi mesi prima, durante una trasmissione televisiva su Sky, aveva affermato, interrogato sulla Shoah: “Se le camere a gas sono mai esistite? Francamento non ho nessun mezzo per poterlo affermare o negare”. In occasione delle elezioni politiche del 2006 il partito di Romagnoli – denominazione completa Movimento sociale Fiamma tricolore, alleato con il centrodestra in tutta Italia – aveva realizzato un manifesto che accanto alla foto di un gruppo di squadristi del Ventennio annunciava: “Sostieni la squadra del cuore”.

Due momenti pubblici che raccontano come Silvio Berlusconi sia il primo responsabile dell’emersione di personaggi come Giuliano Castellino, un po’ l’uomo “nero” del momento. Oggi capofila di quei “No Green pass” che hanno assaltato la Cgil, così l’attuale delfino di Roberto Fiore ed esponente di spicco di Forza Nuova parlava nel 2008: “L’antifascismo che ha portato tante disgrazie e nefandezze dal ‘45 ad oggi non potrà mai essere un nostro valore. Oggi la nuova Italia di Berlusconi-Tremonti-Alemanno sta davvero cambiando in meglio la nostra nazione”. E ancora: “Noi stiamo con questo governo che si sta occupando dei problemi reali del Paese”. Riguardo puoi la concezione di “male assoluto” usata da Fini in relazione al fascismo, Castellino sottolinea come “questa può essere attribuita solo al demonio, e sicuramente il fascismo non lo è stato. Dal punto di vista storico”, la sua versione-rivisitazione della storia “non potrei mai dire che il male assoluto è il marmo contro la palude, la scolarizzazione di massa, le case popolari, la previdenza sociale. Naturalmente”, la chiosa di Castellino, “Fini è libero di dire ciò che vuole, ma non credo che il suo sia il pensiero del popolo di centrodestra”.





All’epoca Castellino non era in Forza Nuova ma, attenzione, ne “Il popolo di Roma”, di fatto una sorta di lista civica (decisamente nera) legata all’allora sindaco Gianni Alemanno. Chiedere quindi che sia Giorgia Meloni a prendere le distanze da simili esponenti neofascisti e, contemporaneamente, rimpiangere il Berlusconi “grande federatore” di una destra “diversa” è quantomeno miope.

Come è miope credere che Roberto Jonghi Lavarini sia spuntato quasi dal nulla finendo nell’inchiesta di Fanpage come se fosse un “infiltrato” (parole che ritornano, evidentemente). Roberto Jonghi Lavarini che parla di “entrismo” nella Lega e stringe accordi con esponenti milanesi di Fratelli d’Italia, Roberto Jonghi Lavarini che si fa uomo “ponte” tra le forze neofasciste milanesi e l’area “Borghezio” della Lega, Roberto Jonghi Lavarini che organizza cene e aperitivi elettorali da “dietro le quinte” tanto per i Carlo Fidanza (Fratelli d’Italia) che per i Max Bastoni (Lega Nord), non è un personaggio spuntato dal nulla.

Ecco le sue parole, anno 2010, dopo che il 27 maggio in un discorso pronunciato in occasione di una riunione dell’Ocse il Cavaliere ha citato addirittura un passaggio dei Diari di Mussolini, un testo scovato dal suo fedelissimo Marcello Dell’Utri e che gli storici hanno dimostrato essere falso, e si paragona al Duce (“Io non ho nessun potere, forse ce l’hanno i gerarchi, ma non io. Io posso solo decidere se far andare il mio cavallo a destra o a sinistra, ma nient’altro”): il Barone Nero, così definito da Paolo Berizzi nel libro Bande Nere del 2009 (ed. Bompiani) ringrazia “il nostro presidente Berlusconi che, ancora una volta, si dimostra capo popolare e carismatico, fregandosene del “politicamente corretto” e “degli antifascisti vecchi e nuovi, alla faccia del voltagabbana Gianfranco Fini. [Siamo] finalmente liberi di gridare: W IL DUCE!”.

Per Jonghi Lavarini la passione per il Ventennio e la Rsi conducevano direttamente tra le braccia di Berlusconi. Personaggio marginale della destra nera? Il consigliere regionale della Lega, Max Bastoni, si è difeso dall’inchiesta di Fanpage dicendo che “Jonghi Lavarini non conta nulla”. In Fratelli d’Italia e nel Carroccio hanno fatto a gara per dire “non lo conosciamo”, e lui ha replicato postando sui suoi social delle foto mentre abbraccia Giorgia Meloni e Matteo Salvini, avvertendo: “Non facciano finta di non conoscermi”.

Ed effettivamente Jonghi Lavarini ha ragione. Difficile sostenere di non conoscerlo. In epoca berlusconiana, già consigliere comunale di Milano nel partito La Destra guidato da Francesco Storace, Jonghi Lavarini ha poi formato il gruppo Destra per Milano e ha aderito al Popolo della libertà. Ieri come oggi, non ha mai rinunciato a nessuna delle sue antiche passioni: sosteneva e sostiene l’estrema destra tedesca, il partito boero sudafricano pro-apartheid, il cui simbolo è una svastica a tre braccia sormontata da un’aquila, e da alleato del Pdl rivendicava con orgoglio l’appartenenza alla fondazione Augusto Pinochet, in omaggio al feroce dittatore cileno.

Contraddizione tra la fede neofascista e l’alleanza-adesione con il partito di Berlusconi? Nessuna. “Avanti liberi e coerenti nel Pdl, con la fiamma nel cuore” scriveva sul suo blog, una sorta di museo di quell’alleanza: tra i siti segnalati spiccavano quelli dedicati a Mussolini, alla X Mas e alla Repubblica di Salò, il tutto mescolato con i nomi di Silvio Berlusconi e Romano La Russa, allora esponente di spicco del Pdl milanese e fratello del ministro della Difesa Ignazio.

Nella Lega nessuno lo conosceva, ma entrava nella sede della Regione dalla porta principale per incontrare esponenti di primo piano del partito di Matteo Salvini. In Fratelli d’Italia nessuno lo conosceva, ma organizzava aperitivi elettorali per sostenere esponenti di primo piano del partito di Giorgia Meloni. Chissà, magari non lo conosceva nessuno anche in Forza Italia e tra le fila della Casa delle Libertà prima e del Popolo delle Libertà poi. In fondo, è cosa di tutti i giorni che uno sconosciuto si “infiltri” alla festa del Pdl (ottobre 2008) al Lido di Milano, partecipi a una cena di gala con Silvio Berlusconi e gli regali un libro apologetico sulla storia della Rsi.



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