Cuba Libre

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Dall’archivio di MicroMega due interventi dello scrittore, giornalista e attivista politico cubano Carlos Franqui (1921-2010).

Ma il caudillo crollerà            



di Carlos Franqui, da MicroMega 1/1992

Fidel Castro, quando aveva bisogno di tutti per prendere il potere, si proclamava «cristiano, democratico, umanista, avversario del comunismo, delle nazionalizzazioni, di ogni dittatura di destra o di sinistra»; sua era la famosa frase «pane e libertà, pane senza terrore».



Nel 1959, al momento del trionfo, rispolverò, in senso più biblico che marxista, la parabola dei «Dodici barbuti», «che avevano vinto la rivoluzione», rubandola ai combattenti della clandestinità, e al popolo, che ne erano i veri artefici.

Si travestì da Davide romantico e ribelle, e sfidò il Golia gringo. Machiavellico allievo dei gesuiti, decise che, per diventare grande, il piccolo deve sfidare il più grande di tutti (gli Stati Uniti), e, per non venir distrutto, deve allearsi a un altro grande (l’Urss), nemico del primo.





Da abile caudillo moderno, aspirando al potere assoluto e non potendo imporre una vecchia dittatura come quella appena sconfitta, nel 1960 organizzò una nuova dittatura in nome dell’antimperialismo e della rivoluzione e, dimenticando le precedenti promesse, nel 1961 si proclamò marxista-leninista.

Consegnò così ai sovietici «l’isola eroica» che aveva fatto senza marxismo né comunisti la sua rivoluzione radicale e nazionalista, suscitando grandi simpatie in tutta l’America Latina; una rivoluzione che avrebbe potuto diventare un nuovo modello per tutti i paesi poveri e che minacciava il monopolio comunista sulle rivoluzioni. A novanta miglia dalle coste degli Stati Uniti, Cuba rappresentava un territorio ideale per lo spionaggio, per le basi e le installazioni militari e marittime, in un periodo ancora caldo della guerra fredda.

Per due anni Cuba conobbe un livello di consumi altissimo e un’immensa popolarità, ma intanto si divoravano le riserve interne ed esterne. Col suo canto di sirena, Castro sedusse il paese e il mondo intero, continuando a ripetere dagli schermi e nei suoi discorsi che quell’ isola tropicale di fertili terre sarebbe diventata uno dei paesi più ricchi del mondo, e avrebbe prodotto più carne della Francia, più latte della Svizzera e un benessere tale da suscitare l’invidia degli stessi yankees.

Eliminò i latifondi e ne instaurò uno solo, statale, più facile da governare delle centinaia di migliaia di contadini «individuali sti»; confiscò ricchezze e proprietà e si mise d’accordo con Krusciov per trasformare Cuba, ex zuccheriera degli Stati Uniti, in una zuccheriera sovietica. Questa sua scelta significò monopolio, monocultura, monomercato, «caudillismo» economico, distruzione dell’economia dell’isola e, dal 1961 in poi, razionamento, code, scarsità di prodotti, mercato nero, privilegi per la nomenklatura.

A metà del 1959, demandò al comandante Guevara l’organizzazione della rivoluzione nel continente americano nelle cui viscere antimperialiste avrebbero dovuto ardere molte Sierre Maestre: Repubblica Dominicana, Panama, Venezuela, Perù, Colombia, Guatemala, Nicaragua, Argentina, Brasile, senza dimenticare i tentativi in Africa. L’avventura finì con la sconfitta e la morte di Guevara, solo e abbandonato, in Bolivia nel 1967.

Falliti questi tentativi castro-guevaristi, invisi ai sovietici e ai vecchi comunisti latinoamericani, divenne più aspro il conflitto con Mosca, finché i sovietici gli tagliarono il petrolio. Castro approfittò allora dell’invasione di Praga del 1968 per schierarsi con gli occupanti, tra la sorpresa generale, e in tal modo si legò definitivamente al carro sovietico. Nel 1970 l’ottimista Castro, dopo il fallimento della zafra dei dieci milioni di tonnellate di zucchero, divenne pessimista e giunse alla conclusione che il comunismo non aveva prospettive in un paese piccolo, senza capire che non ne aveva neppure in uno grande.

Castro convinse Breznev, di cui era diventato amico e consigliere, ad abbandonare l’immobilismo della politica estera sovietica. Gli assicurò che gli Stati Uniti di Carter, paralizzati dal complesso vietnamita, non sarebbero intervenuti, che le teorie maoiste erano degne di «un vecchio rimbambito», e che invece di aspettare l’esplosione rivoluzionaria, bisognava provocarla e sostenerla militarmente, sconfiggendo il capitalismo là dove era più debole, e in seguito circondare le sue metropoli fino ad asfissiarle.

Alle obiezioni dei dirigenti sovietici contrari a una politica avventurista, estranea alla tradizione russa e tale da mettere in questione Jalta, Castro rispose: se mi date i soldi, mi occupo io degli interventi. Se vinciamo, e vinceremo, divideremo la vittoria, se scoppia un conflitto, sarò io il solo responsabile e mi farò carico della sconfitta.

Si ebbero così l’Angola, l’Etiopia, il Nicaragua, Grenada: tutte vittorie del comunismo che avanzava in Africa e in America Latina, di fronte all’impotenza nordamericana, accrescendo il dominio sovietico e la fama del comandante cubano.

Con i suoi successi Castro riuscì a radicalizzare e a snaturare in senso filosovietico e antiamericano il movimento neutralista dei non-allineati di Nehru, Nasser e Tito (che lo avevano voluto alla presidenza).

Intanto, il corrosivo umorismo dei dissidenti cubani inventava barzellette che facevano il giro del mondo: «Qual è il paese più grande del mondo? Cuba, che ha la popolazione a Miami, la capitale all’Avana e il governo a Mosca». Castro vedeva il suo sogno di protagonismo mondiale diventare realtà e sognava la sua Avana capitale rivoluzionaria del Terzo mondo, alla pari di Mosca e Pechino.

Sono state le istituzioni totalitarie del potere sovietico, il loro sostegno politico, militare, diplomatico, economico, energetico, industriale e alimentare a mantenere Castro al potere dal 1961 in poi.

Neppure il più astuto e sanguinario caudillo latinoamericano avrebbe potuto resistere in sella di fronte a un’opposizione che offre dati così spettacolari: più di un milione di anni di condanne carcerarie per i dissidenti; un milione di esiliati; decine di migliaia di fucilati e desaparecidos; resistenza passiva; una crisi economica permanente e sempre più drammatica in un paese tropicale un tempo essenzialmente autosufficiente, mentre ora tutto, perfino il pane, è razionato.

Il potere sovietico ha permesso a Castro di disporre del più grande esercito del mondo, e fra i meglio armati, in rapporto alla popolazione cubana; basta un solo dato ufficiale a provarlo: mezzo milione di militari e paramilitari cubani hanno combattuto e avuto un ruolo decisivo in guerre avvenute in quindici paesi di tre continenti.

Gli «aiuti economici» a Cuba erano una pura espressione propagandistica. La principale regola del comunismo sovietico sanciva il primato della politica sull’economia. La politica sostituiva e soppiantava l’economia, una «categoria capitalista». Più che produrre, bisognava obbedire. Non c’erano perdite né guadagni. Per la prima volta nella storia, in un commercio tra due continenti, non c’era chi guadagnava e chi perdeva, o un guadagno per tutti e due: nell’economia comunista perdono sempre tutti e due i contraenti ed è lo Stato ad accollarsi la perdita. Questa, sebbene non sia l’unica, è una delle principali cause del crollo del comunismo, che si è espanso parassitariamente in tutto il mondo producendo sempre meno ricchezza. So che Castro è costato molto caro alle popolazioni dell’Urss e so anche che il comunismo e Castro hanno distrutto Cuba, la cui «haitizzazione» ha fatto scendere il livello di vita della popolazione non a quello degli anni Cinquanta, bensì all’epoca preindustriale della colonia spagnola.

Questo enorme investimento politico-economico dell’Urss nell’avventura castrista, che ha raggiunto cifre astronomiche, a Cuba ha prodotto rovina, non benessere; una rovina niente affatto compensata dalle tre quasi eterne mezze verità o mezze menzogne del mondo comunista: occupazione garantita, istruzione e salute. C’è molta disoccupazione a Cuba, diseducazione alla critica e disinformazione nelle scuole e nelle università, dove i giovani non possono esprimersi né hanno gli strumenti per pensare liberamente, e se in effetti vi sono più medici e ospedali, non si trova più, in compenso, neppure l’aspirina per il mal di testa. No, la storia non assolverà Fidel Castro, anzi, lo condannerà per essere stato il più grande espansionista dell’America Latina e il peggior nemico dell’indipendenza, della libertà e dell’unità volute da Bolivar e da Martì.

Questa è l’eredità che Castro lascia ai pochi castristi o comunisti rimasti nel mondo, i quali si ostinano a credere che l’America Latina sia tutta un’immensa repubblica delle banane, come se il Brasile fosse uguale all’Argentina, il Cile al Paraguay, la Colombia al Perù, il Venezuela all’Ecuador, il Costarica al Nicaragua e Cuba ad Haiti o Santo Domingo. Come mai non ci si chiede perché, malgrado i tanti gravissimi problemi, tutti gli attuali governi dell’America Latina siano stati liberamente eletti e nessuno di loro è filocastrista? Forse i popoli quando votano sono controrivoluzionari? Castro perse la sua ultima occasione quando Gorbaciov andò all’Avana e gli prospettò la necessità di un cambiamento. Come risposta Fidel destituì i suoi funzionari dell’economia riformisti, che, nella scia della Cina, pensavano a un potere statale comunista con una privatizzazione dell’agricoltura e delle enclaves di industria privata. Il ritiro degli aiuti militari, economici e politici sovietici da Cuba, l’insuccesso del colpo di Stato dei suoi amici e alleati di Mosca, la fine del sistema comunista e il suo fallimento interno sono le cause della prossima inevitabile caduta di Castro.

Se non avesse distrutto l’industria dell’allevamento che riforniva Cuba di carne, latte, formaggio e burro, se non avesse raso al suolo i campi di caffè sotto le cui piante combattemmo la guerriglia della Sierra, le enormi coltivazioni di riso, mais, grano, tuberi, ortaggi e frutta che rendevano il paese autosufficiente all’80 per cento, se non avesse fatto tabula rasa persino del tabacco, che Colombo aveva scoperto nell’isola, oggi non sarebbe costretto a decretare l’opzione zero «socialismo o morte», e a sostituire i trattori con i buoi, i trasporti con le biciclette, il petrolio col carbone vegetale distruggendo i boschi. Non sarebbe costretto a evacuare le città deportando la popolazione nelle campagne, a militarizzare tutto, agricoltura compresa. Più di trecentomila cubani sono stati trasferiti in migliaia di nuovi accampamenti isolati e agli abitanti delle città viene imposto, per sopravvivere, di mangiare nelle mense popolari di quartiere.

Non sono un nostalgico che confonde i sogni con la realtà. Ho partecipato a una rivoluzione che ritenevo necessaria e possibile; quando Castro la trasformò in barbarie ho cercato di oppormi come potevo. Sapevo, conoscendone la realtà, che il comunismo e il suo figlio bastardo, il castrismo, sarebbero stati sconfitti. Non pensavo di veder cadere né l’uno né l’altro. Il sistema castrista ha imboccato la china finale: questa è una verità che la sua propria storia rende irreversibile.

Come e quando cadrà dipenderà dal caso, non da calcoli matematici. Ci sarà un colpo di Stato civile o militare, del partito o dei generali? Vorranno suicidarsi, dal punto di vista politico e umano, insieme con la famiglia Castro, i militari e i dirigenti dell’isola? Penso di no. Riusciranno ad agire contro un sistema di terrore, di fucilazioni – l’esempio Ochoa – e di carcerazioni implacabili?

Se Castro non verrà obbligato a dimettersi o ad andarsene, se non morirà in un incidente o in un attentato, la situazione senza uscita, lo scontento popolare, la popolazione in maggioranza giovane e senza speranza ingrosserà le fila della resistenza civile già visibile nelle piazze e nelle strade, e, se verrà superata la paura fin qui paralizzante, l’opposizione si organizzerà. Un giorno non lontano a Cuba, come in altri paesi ex comunisti, il «mostro di ferro» crollerà al primo scossone.

Se Castro fosse un rivoluzionario che ha sbagliato, se fosse un politico lucido, un uomo d’onore e divalore (non il facile valore di saper uccidere, ma il vero valore di saper morire), darebbe le dimissioni o si suiciderebbe. Il comandante cubano non è più uno dei potenti della terra; ormai è ridotto, come un vecchio gallo spennacchiato, a gracchiare «socialismo o morte», mentre nell’isola si leva il grido di «vita e libertà».

(traduzione di Annamaria Piccoli)

 

Cuba sì, Castro no!

di Carlos Franqui, da MicroMega 3/2003

Lo scontento popolare, il fatto che la gente comincia a parlare apertamente, la paura di perdere il potere, ma anche la sua perdita di protagonismo sulla scena internazionale: c’è tutto questo dietro l’ultima ondata repressiva scatenata da Fidel Castro, un uomo che – l’ho detto più volte e ne sono sempre più convinto – comanda ma non governa.

In questi giorni ne abbiamo ancora una conferma: la linea del regime non è quella della repressione costante, ma è caratterizzata piuttosto da fasi alterne. Permettere che si sviluppino germogli di nuovi movimenti per poi stroncarli alla radice. È un modo per non lasciare spazio all’illusione, per spazzare via ogni entusiasmo. Negli ultimi anni ho scoperto un fenomeno interessante, uno dei più interessanti occorsi in un paese comunista: la stampa indipendente. A un certo punto, a Cuba, siamo arrivati ad avere più di cento giornalisti indipendenti: si trattava in parecchi casi di persone che avevano lavorato in passato nei media ufficiali e che decidevano di passare dall’umiliante terreno della propaganda all’esercizio di una informazione vera. A questo progetto ho cercato, e sto cercando, di dare un contributo con la rivista Carta de Cuba, che dirigo qui da Portorico e che raccoglie, quando è possibile, testimonianze dirette provenienti dall’isola, racconti di vita vissuta sotto un regime dittatoriale. La sfida era delle più coraggiose, tanto che Castro non ha tardato molto a stroncarla: verso il 2000 almeno la metà dei giornalisti indipendenti sono stati costretti a fuggire all’estero, o deportati in zone sperdute del paese, privati degli strumenti di lavoro, parecchi di loro arrestati a più riprese. Eppure, nonostante le minacce e le intimidazioni, negli ultimi due anni il movimento si era ripreso, coincidendo con lo sviluppo di quello che è stato il più coraggioso progetto per una transizione democratica a Cuba, il Progetto Varela.

Vale la pena di ricordare che il regime non ha avuto, almeno in apparenza, un comportamento lineare nel corso di questi decenni: ci fu l’epoca (anni Sessanta soprattutto) delle condanne pesantissime contro i dissidenti, condanne fino a vent’anni di carcere e anche di più; negli anni Novanta ci era sembrato di assistere a un parziale ammorbidimento (pensiamo al movimento La Patria es de Todos), con pene contenute intorno ai cinque anni di reclusione. Ora siamo tornati alla linea del passato, di nuovo i vent’anni di carcere, quasi a mettere sull’avviso che la dissidenza non ha futuro. L’idea di Fidel Castro è chiara, il potere si mantiene con il terrore. E quanto più si sviluppa un nuovo movimento, tanto più dura e spietata dev’essere la reazione.

Si è detto che tra gli elementi che possono aver concorso a provocare questa nuova ondata repressiva – le decine d’arresti, i processi estremamente sommari senza le garanzie di difesa, le condanne «esemplari» – ci può essere stata la linea dura scelta dalla Casa Bianca con la nomina di un nuovo capo della «sezione d’interessi» Usa all’Avana, un esponente dell’ala intransigente dell’amministrazione, incaricato di condurre una politica da agente provocatore, con un appoggio esplicito ai gruppi della dissidenza. In realtà non è questo il fattore fondamentale. Sin dal trionfo della Rivoluzione, non si è mai permesso lo sviluppo di una opposizione pacifica: la linea è stata sempre e solo una, quella di reprimere. E dall’inizio è stato proprio questo uno dei più gravi motivi di contrasto tra me e Fidel Castro.

È vero, la causa principale che è stata addotta per condannare queste persone è stata quella di aver mantenuto rapporti con ambasciate straniere. Ma questo è il trionfo dell’ipocrisia. Negli ultimi anni Castro ha ricevuto centinaia di americani, anche di seconda classe, perché era convinto che il dollaro americano avrebbe salvato l’isola. Quando i talebani catturati furono trasportati a Guantanamo, Raúl Castro arrivò a dire che, se avessero tentato di fuggire, li avrebbe restituiti alle forze Usa. In un mio libro, del resto, scrivevo della relazione che abbiamo avuto con gli Stati Uniti ai tempi della clandestinità. Non si dimentichi che il 14 aprile 1958 gli Usa decisero l’embargo nella vendita di armi al regime di Fulgencio Batista, cosa che gli risultò fatale. Insomma, allora era normale avere rapporti con gli Usa, ora è diventato un delitto.

Da sempre, quello che più interessa a Fidel è stare sulle prime pagine dei giornali. Credo che non sopporti di aver perso, almeno in parte, un ruolo da protagonista sulla scena mondiale. In quest’ultimo caso, almeno la scelta dei tempi lascia pensare che l’obiettivo fosse l’opposto: cercare di passare il più possibile inosservato. L’arresto dei 78 dissidenti, tra i quali quasi trenta giornalisti, è avvenuto proprio in coincidenza con l’inizio della guerra in Iraq, quando tutta l’attenzione dei media internazionali era concentrata su quello scenario bellico. Ma le dimensioni dell’operazione repressiva, e il fatto che per la prima volta dopo 15 anni si sia arrivati ad applicare la pena di morte, non potevano non provocare una reazione forte nell’opinione pubblica mondiale. Ora si tratta di vedere se alle parole seguiranno i fatti, e quali fatti. La sfida del dittatore prima agli Usa e poi all’Europa – con la manifestazione di massa contro Aznar e Berlusconi – è una sfida solo verbale. Se la sua ira è così grande, se è davvero convinto che ci sia un complotto contro di lui, perché non ha subito espulso il capo della «sezione d’interessi» americana? E perché non nazionalizza gli hotel spagnoli all’Avana? O non decide di espellere Benetton o altre imprese italiane? Scatena la propaganda contro i governi ma non tocca gli interessi economici.

È proprio su questo terreno che si misurerà la volontà effettiva dell’Europa di agire contro questo regime. Per quanto Castro possa essere convinto del contrario, non può e non potrà mai vivere completamente isolato dal mondo, non potrà rinunciare anche all’Europa dopo aver tagliato i ponti con l’America. E allora l’Unione europea – che è sempre stata molto importante per Cuba – può e deve aumentare la pressione. Ci sono imprese, molte imprese europee, che operano a Cuba come complici del regime: bisognerebbe prenderne atto e agire di conseguenza. I governi renderebbero un grande servizio al nostro popolo se mandassero aiuti che arrivino effettivamente alla gente, cercando di evitare che passino attraverso i canali ufficiali per finire poi nei negozi per stranieri, dove medicine e beni di vario tipo vengono messi in vendita in dollari. E poi l’informazione, elemento chiave in un paese dove il regime fa di tutto per tenere la popolazione all’oscuro di tutto ciò che accade nel mondo. Perché le radio pubbliche europee non pensano di produrre notiziari che possano essere trasmessi nell’isola? Sarebbe un aiuto straordinario.

Sono solo alcuni suggerimenti, un esempio di quello che si potrebbe fare. Quello che chiede l’opposizione cubana è azione, solidarietà concreta. Non esclusivamente da parte dei governi, ma anche da parte della sinistra europea, che solo in parte ha cambiato il suo atteggiamento. Questa dittatura ha avuto la più grande complicità mondiale che si sia mai vista. A sinistra ma anche a destra, si sono troppo a lungo esaltati i falsi valori della Rivoluzione, si sono perdonati errori e prevaricazioni intollerabili. Una parte della sinistra ha cominciato a ragionare seriamente già da parecchio tempo.

Ricordo che alla fine degli anni Settanta, a Roma, a un convegno organizzato da Paolo Flores d’Arcais, emergeva questa linea dagli interventi di alcuni degli esponenti più rappresentativi della cultura italiana di sinistra: tutto quello che di negativo si dice del comunismo è vero, ma i regimi restano lì. In Italia devo riconoscere che sin dagli anni Sessanta c’era una parte importante della sinistra che ci appoggiava, ad eccezione – ovviamente – del Partito comunista, ancora lontano dalla rottura con il blocco sovietico. Oggi restano ancora scampoli di una sinistra che è rimasta cieca, che si rifiuta di vedere la realtà: ed è da lì che vengono le sue sconfitte: dagli italiani di Rifondazione comunista agli spagnoli di Izquierda Unida, questi ultimi ancora troppo timidi nella loro critica. Ma la cosa veramente importante è che, ormai, la grande maggioranza dei partiti e movimenti progressisti europei sono schierati dalla parte dei gruppi della dissidenza e dell’opposizione al regime totalitario. Agli altri, quelli che sono ancora legati nostalgicamente al passato dell’utopia comunista, posso solo suggerire per il loro bene che pensino a un altro modo di cambiare il mondo.

La domanda, a questo punto, è quando e come termineranno le sofferenze di un popolo sottoposto al giogo della dittatura, privo di qualunque spazio di libertà. Io non ho dubbi che anche questo sistema crollerà, esattamente come i regimi dell’Est. Quando e come, è difficile dirlo. Probabilmente si sbagliava chi ad un certo punto ha creduto che Fidel Castro volesse avviare una transizione lenta e morbida attribuendo alla Chiesa cubana un ruolo da protagonista. Credo che in realtà, in un certo momento, che culminò con l’organizzazione della visita del papa, cinque anni fa, egli arrivò a fare questo tipo di ragionamento: la Chiesa si occupi dello spirito, che io mi occupo dei corpi. A patto che non si metta in politica. Il rischio era contenuto perché a Cuba, non dimentichiamolo, la gerarchia ecclesiastica non ha avuto un ruolo simile a quello esercitato in paesi come il Nicaragua, il Cile e la Polonia. L’unico brivido lo vivemmo proprio in quei giorni in cui Giovanni Paolo II visitò l’isola quando in più di una occasione, durante le messe oceaniche, si levò un insolito grido: «Libertà, libertà».

Sul comunismo io ho un’idea molto precisa: distrugge tutto nella prima fase, nella seconda paralizza tutto, nella terza si autodistrugge. Ecco, credo che a Cuba siamo arrivati alla fase dell’autodistruzione. Sui tempi e i modi, si possono fare molte speculazioni. È vero che il regime, con gli ultimi processi, ha cercato di stroncare ogni speranza di poter dar vita a un movimento dell’opposizione. È anche vero che la gioventù cubana pensa, in maggioranza, che l’unica speranza di salvezza è nella fuga, a Miami o in Europa. Però ci sono un milione di persone senza lavoro. E ci sono ventimila cubani che, un anno fa, hanno avuto il coraggio di sottoscrivere il Progetto Varela, il primo tentativo serio di avviare il paese sulla strada della democrazia. Ci sono insomma tutti gli elementi per pensare che in futuro possa riprendere corpo un movimento della dissidenza. In un sistema comunista, la morte del leader unico è sempre molto importante. La scomparsa di Fidel Castro, quando avverrà, precipiterà di certo gli eventi. Ma non è detto che provochi automaticamente la caduta del regime. Il controllo dell’economia e della struttura militare è saldamente in mano al fratello Raúl. Già da tempo, c’è una parte consistente dell’apparato che è preoccupata e pensa seriamente al da farsi nel caso in cui le cose si mettano male. L’Europa può darci una grossa mano, aumentando la pressione, accelerando l’isolamento. Solo così il regime può avviarsi inesorabilmente verso l’autodistruzione.



(credit foto EPA/MARISCAL)