“Jin, Jiyan, Azadî”: un libro importante

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Potere e contropotere, resistenza e progetto politico: un libro racconta “la rivoluzione delle donne in Kurdistan” attraverso le voci di 20 militanti curde.

Esiste una lunga guerra dimenticata (cioè cancellata dall’Occidente) con profughi e massacri resi invisibili. Il Kurdistan esiste per la storia, non per la geografia e la geopolitica. Il popolo curdo non ha ottenuto uno Stato e neppure un’autonomia: in modi diversi ma sempre crudeli Irak, Siria, Iran e soprattutto Turchia hanno mirato a cancellare le “minoranze” curde, milioni di persone. Della resistenza curda si parlò sui media – e persino sulle riviste patinate che lanciarono la moda “guerrigliera” – per qualche mese nel 2015 perché combatteva e sconfiggeva lo Stato Islamico, con le donne in prima linea.



Ma il popolo curdo tornò nell’ombra appena il cosiddetto Occidente decise di “lisciare il pelo” a un Erdogan, sempre più dittatore in casa e con lunghi artigli armati in varie zone del mondo quasi progettasse (certamente lo sogna) di ricreare il vecchio impero ottomano. Il nuovo sultano si arma con i soldi che l’Unione Europea gli dà per tenere lontani i profughi “non abbastanza belli e bianchi” cioè quelli che scappano dalle guerre in Siria e Irak dove la Turchia ha più di uno zampino. Un circolo vizioso che si riproduce nel silenzio dei media e nell’indifferenza quasi mondiale. Con una variabile annunciata recentemente da Recep Tayyip Erdoğan: vuole cacciare da Siria e Irak – dove andranno? – i curdi e gli altri popoli che si oppongono alle sue mire per “sostituirli” con un po’ di quei profughi (scelti e inquadrati come… non è difficile da immaginare) ora “parcheggiati” in Turchia.

Quadro fosco. Ma resiste e cresce una speranza. Contro i progetti di Erdogan e dei suoi alleati ci sono popoli – i curdi e non solo – che nella zona dell’antica Mesopotamia (noi ora la chiamiamo Medio Oriente, sbagliando persino il nome perchè sarebbe il Vicino Oriente) hanno un progetto di convivenza e di democrazia vera, cioè non paracadutata dal Trump o dal Biden di turno.



«Jin, Jiyan, Azadî» è un libro doppiamente importante. Perché si muove in questo scacchiere decisivo per le sorti di molti popoli e dunque del mondo intero. E perché racconta «la rivoluzione delle donne in Kurdistan» attraverso le loro voci.
Scrivono le autrici di questo libro: «le ultime correzioni vengono fatte mentre l’esercito turco e i suoi alleati jihadisti proseguono una guerra aperta e sanguinosa…» contro le zone autonome e democratiche della Siria.

Il libro non ha un autore ma è firmato dall’«istituto Andrea Wolf» che prende il nome dalla militante internazionalista tedesca, conosciuta anche come Sehid Ronahî, che fu uccisa nel 1998 mentre combatteva per la libertà del Kurdistan.





Libertà è una parola da non usare a casaccio. All’inizio del libro leggiamo che quando nell’antica Grecia compare la «gerarchia» – cioè «l’ordine del sacro» – si sente il bisogno di cercare (di inventare anzi, perché prima non esisteva) un’altra parola che si contrapponga, indicando la scelta di chi non si sottomette a quella tirannia. Nelle prime pagine del libro leggiamo: «la parola utilizzata è amargi che in lingua sumera significa “ritorno alla madre” […] intesa come ritorno alle società naturali create intorno ai valori della donna madre» e dell’antica Dea che fu cancellata dalle religioni maschili. Ed è a questo pensiero antichissimo che si ricollega la «rivoluzione delle donne» – mai immaginata finora, almeno in queste forme – che non si oppone solo al fascista (come altro chiamarlo?) Erdogan ma porta avanti il progetto chiamato «confederalismo democratico» scuotendo il Vicino Oriente.

Libro non semplice ma avvincente e quasi sempre convincente. Che si muove su uno spettro politico, storico e filosofico amplissimo.

Le voci delle 20 militanti curde che si alternano nel libro parlano ovviamente di potere e contropotere, di resistenza e di progetto politico ma anche – non stupitevi – di fisica quantistica e di storia antica, degli irochesi e della Dea Madre, di femminismo e intersezionalità, di profughi e di Spinoza, di uomini che rifiutano (o almeno cercano di farlo) «il maschio dominante» e di cosa sia un nuovo «contratto sociale». La trasformazione dei rapporti fra donne e uomini, fra nazioni e fra specie viventi evidentemente riguarda anche noi, in questa parte del mondo così diversa per altri aspetti.

Difetti? Alcune pagine suonano retoriche, è vero. Affiora spesso una “venerazione” verso Ocalan (il leader curdo rinchiuso dal governo turco in un’isola-prigione) e verso le prime donne che iniziarono il processo di liberazione nel Kurdistan: a noi può suonare esagerata. Ma sono difetti che si spiegano con la durezza di uno scontro politico dove inevitabilmente si “producono” eroi ed eroine, piangendo martiri, ricompattando i sentimenti verso un progetto collettivo. Piccoli difetti ma in un grande libro che aiuta davvero a capire concetti nuovi come «confederalismo democratico» e «Jineolojî, la scienza delle donne». Chi vuole tentare di costruire un mondo migliore dovrà passare dalla resistenza e dai progetti del Kurdistan.



(credit foto EPA/GAILAN HAJI)