Prima del prossimo episodio di MDNM, l’Accademia Reale di Svezia annuncerà la vincitrice o il vincitore del premio Nobel per la Letteratura 2022. Secondo il parere di chi scrive, quattro autori meriterebbero senz’altro il riconoscimento: il siriano Adonis, il ceco e ora francese Milan Kundera, la francese Annie Ernaux (ancora di recente nelle librerie italiane con la piccola gemma Guarda le luci, amore mio, nuovamente per L’orma editore) e il kenyota Ngugi wa Thiong’o. Per ragioni non solo anagrafiche, i primi due candidati dell’elenco sarebbero forse, secondo il nostro punto di vista, da considerarsi con priorità. Un fattore di cui tenere conto è poi quello per cui la lingua spagnola, portoghese e italiana mancano al premio da – rispettivamente – undici, ventiquattro e venticinque anni, circostanza che potrebbe aiutare uno fra Javier Marías, Antonio Lobo Antunes e Claudio Magris. Un discorso a sé stante merita infine il caso dell’ucraino Serhij Žadan, che verrà affrontato in questo numero di MDNM.
B. Varela, Pienezza dell’occhio, trad. E. Coco, Milano, La Vita Felice, 2020
a Allizon, a Katya, mis amadas
Come gli uomini, anche le parole agiscono in famiglia e nella società (le frasi, i testi) in vesti e dinamiche codificate. La sintassi stabilisce, ad esempio, per ciascun sintagma una funzione, nonché l’ordine dei sintagmi, pena l’infiacchirsi dell’efficacia dell’enunciato, lo sfumare del suo implicito obiettivo: comunicare un’informazione. Immaginiamo, tuttavia, di porre alla frase un traguardo diverso, quello di trasmettere non un dato, ma una sensazione o un’emozione. La struttura sintattica di cui sopra potrà ora rielaborarsi, a volte persino dissolversi, poiché si intende raggiungere non più la dimensione razionale del destinatario, ma quella irrazionale. I poeti già da lungo hanno appreso questa lezione, e fra loro oggi citiamo la limeña Blanca Varela (1926-2009). Come la letteratura del Perù è un piccolo scrigno incredibilmente ricco, così l’opera di tale splendida poetessa, che dal connazionale Vallejo (fra i maggiori poeti sudamericani d’ogni tempo) ha imparato quella che qui vorremmo definire la “pregnanza delle parole”: e nel combinarle in soluzioni inusitate fare sì ch’esse raggiungano una rinnovata pienezza di significato, di musicalità, di tinta, di sapore. Vediamo un rapido esempio. In Cammino per Babele, la Varela scrive: come nei canti dei ciechi/ c’è una rugiada ossessionata di eternità e miseria. Già la prima immagine sorprende, il lettore di sfuggita fa giusto in tempo a domandarsi, “Forse che i ciechi cantino speciali canzoni, o in qualche modo singolare?”, ed ecco è raggiunto da una successione fulminea straniante di colpi: una rugiada (“Nei canti?”), ossessionata (“Personificazione?”), di eternità e miseria (“!!”, come in notazione scacchistica). Abituati a vederle in fondo sempre in contesti usuali, le parole hanno smesso di meravigliare. Si osserva un tavolo in salotto oppure un cavallo che bruca. Riassemblate, tuttavia, esse ottengono in certo senso quella rotondità che avevano smarrito, riacquistano peso, tornano ad essere visibili: il cavallo è sopra il tavolo e tutto a un tratto l’uomo vede veramente entrambi, come singoli (si stupisce dell’equilibrio del primo, della solidità del secondo e così via) e nell’inattesa, attuale combinazione. Si tratta d’un gioco? Forse, ma attraverso i giochi a volte si capisce più direttamente, più vivamente che con argomentate spiegazioni. Vogliamo però sottolineare che la gioia ludica resta. Leggere Blanca Varela è compitare il divertimento felice del suo virtuosistico scrivere. (Anche ascoltando Mozart si coglie la felicità malinconica e leggera, viennese del Maestro: penso all’undicesima sonata, con le garbate variazioni del primo movimento, il minuetto brillante nel secondo, infine il giubilante incalzare del rondò alla turca.) Spiaggia notturna/ dove il sole arriva camminando sulle sue mani,/ fresco, cavalcando come il vecchio cavallo della piazza/ tutto di legno e rosso,/ come un campanile sul mare e le sue statue,/ chiari apostoli con la bocca aperta/ e il palato nero a furia di parlare con Dio/ e di berlo la mattina/ a verdi sorsi,/ sorprendendolo tra i gabbiani,/ perché lui è il pinguino maschio dagli occhi salati/ o la vecchia tartaruga/ il cui amore illumina il bosco.
S. Žadan, Il convitto, trad. G. Brogi e M. Prokopovyč, Roma, Voland, 2020
Il sottoscritto dovrà confessare che, se recensendo le poesie di Blanca Varela lo influenzava un pregiudizio positivo, dettato da ragioni schiettamente personali, nell’accostarsi – per la prima volta – all’opera dell’ucraino Serhij Žadan agiva un preconcetto opposto, parzialmente poi dimostratosi sbagliato. L’Accademia Polacca delle Scienze ha recentemente avanzato la candidatura di questo poeta e scrittore (ma anche cantante in un gruppo rock) al Nobel, in sostanza per supportare ulteriormente la resistenza ucraina contro l’invasione russa. Ora, si prenda ad esempio Adonis, fra i più grandi poeti del mondo e certo meritevole del premio. È siriano, e in Siria la guerra prosegue da undici anni. Nessuno si è però mai finora sognato, giustamente, di assegnargli per questa circostanza il Nobel. Vorremo farlo con Žadan? Vorremo davvero stabilire una graduatoria di valore fra le guerre? Il Nobel non è un premio di consolazione e dovrebbe avere a che fare soltanto con la Letteratura. Venendo finalmente a Il convitto: esso è certamente un lavoro molto buono. Racconta di come un insegnante di lingua ucraina nella regione del Donbass attraversi i mille pericoli di guerra per andare a recuperare il tredicenne nipote in convitto e riportarlo a casa. Il racconto, ambientato fra il 2014 e il 2015 (post-Maidan, cioè), ha un forte valore documentario, e dimostra come in realtà l’aggressione dei russi fosse iniziata ben prima rispetto a quando l’Occidente ha preso a curarsene. Costretto nei limiti un po’ rigidi del genere “racconto di guerra”, il romanzo tuttavia riesce nella soluzione non geniale, ma sicuramente accorta di ibridarsi fra novella guerresca, romanzo di formazione e di viaggio. Qui e là la narrazione sembra impantanarsi nel già detto, e forse asciugare il testo di qualche decina di pagine gli avrebbe giovato. Al centro della scena è il protagonista Paša, il quale da indifferente che è sul principio evolve nel corso dei tre giorni di viaggio sino – mi verrebbe da dire – se non allo Spirito almeno all’autocoscienza. È sottile poi la circostanza per cui non venga mai chiarito, nel corso del romanzo, esattamente quale delle due parti sia il nemico, quale l’alleato. I civili paventano indistintamente l’uno e l’altro schieramento in campo, e in certo senso i militari vengono a rappresentare l’irrazionale, il caos, così come ha di recente scritto Goldkorn su Robinson (anche Broch, ne I sonnambuli, attribuiva alla guerra il medesimo significato). I personaggi avanzano come in un oscuro tunnel per cui in parata scorrono macerie, corpi, esplosioni, raffiche, plastica squarciata. Nel finale è la scena di un’operazione improvvisata a un ferito, di notevole impatto e maestria (il romanzo ha un taglio spiccatamente cinematografico, e già così com’è potrebbe facilmente convertirsi in film). Nel testo narrazione e pathos prevalgono sulla dimensione stilistica, che invece non si segnala particolarmente. Mentre scrivo queste righe, Žadan dovrebbe trovarsi, con l’esercito ucraino, a Kharkiv, tuttora sotto attacco. La sua opera (considerando anche i racconti di Mesopotamia e i versi di Etiopia, rispettivamente per Voland ed Elliot) non è ancora da Nobel, ma comunque di indiscutibile interesse.