Questi europei non s’avevano da fare

Si sono fatti a pandemia non ancora finita e – a partire da Mattarella – si sono mandati una serie di segnali sbagliati.

L’unica cosa sensata da dire sulle polemiche relative agli assembramenti che nelle ultime settimane abbiamo visto crearsi attorno alle partite degli europei di calcio – fino al delirio dello stadio di Wembley strapieno – è che questi europei non s’avevano da fare o almeno che si sarebbero dovuti fare senza pubblico. Non era infatti ragionevole pensare che eventi sportivi di tale portata, giocati con il pubblico negli stadi (a differenza delle Olimpiadi in Giappone che si svolgeranno senza spettatori), non creassero situazioni assolutamente incompatibili con una pandemia. Il problema naturalmente non è rappresentato solo dagli assembramenti in sé ma dal fatto che questi appuntamenti innescano un flusso di movimenti di persone che per diversi giorni prima e dopo si spostano, prendono aerei, treni, autobus, si riversano nei locali ecc.: la situazione ideale per la diffusione di un virus e delle sue varianti.



E certo che poi è dura spiegare ai bambini che guardano quel “devastante contagio in diretta” (drammatica ma molto pregnante espressione di Maria van Kerkhove, responsabile tecnica dell’Organizzazione mondiale della Sanità per la crisi Covid-19) che l’indomani loro – anche laddove, come in Germania, vengono sottoposti a test obbligatori 2 volte a settimana, bambini delle elementari inclusi – devono indossare le mascherine tutto il giorno e tenere le distanze.

In un contesto come quello pandemico che stiamo vivendo ormai da un anno e mezzo i segnali che mandano le istituzioni poi sono fondamentali, e negli ultimi giorni ne abbiamo visti almeno due pessimi. Primo: la decisione di Mattarella di andare a Wembley. Anziché da buon padre di famiglia invitare i tifosi a rimanere a casa sottolineando l’importanza di evitare in questa delicatissima fase in cui la campagna vaccinale non è ancora conclusa spostamenti e assembramenti, ha preso l’aereo ed è volato a Londra. Secondo pessimo segnale: l’invito della squadra a Roma dopo la vittoria. Abbiamo appreso da Evelina Cristellin (membro del Fifa Council, anch’ella a Londra a seguire la finale) che non era affatto previsto – vuoi per scaramanzia vuoi per iniziale buon senso – che gli azzurri andassero a Roma dopo la finale. „Il programma originario”, ha dichiarato ieri sera a In Onda, “era che la squadra andasse a Coverciano, poi sono arrivati i graditissimi inviti di Mattarella e Draghi e il programma è stato cambiato”.



Da un anno e mezzo non si festeggiano in grande compleanni, matrimoni, lauree e diplomi, e per molto tempo non si è potuto neanche salutare dignitosamente i morti. Ma alla megafesta per la nazionale evidentemente non si poteva proprio rinunciare. Mandare un bel videomessaggio di congratulazioni alla squadra riunita a Coverciano avrebbe rappresentato un bel segnale di responsabilità, e invece si è deciso di mettere in difficoltà la macchina organizzativa della città. Perché mettere in piedi in 24 ore un sistema che garantisse la sicurezza sanitaria di tutti con la squadra campione d’Europa in tour nella capitale era impresa a dir poco complicata, e infatti è fallita. Grazie anche all’atteggiamento un po’ bullo e un po’ mafioso della Federcalcio che, stando a quanto dichiarato dal prefetto di Roma, non ha rispettato l’accordo che era stato raggiunto e che prevedeva la presenza dei giocatori “fermi” in Piazza del Popolo, senza il tour con l’autobus scoperto, che avrebbe creato (che ha creato) un movimento di masse incontrollabile. Se un assembrato “statico” in Piazza del Popolo sarebbe stato più gestibile è francamente dubbio, ma non è questo il punto: il punto è che lo Stato, messo di fronte al fatto compiuto, per evitare problemi di ordine pubblico, ha dovuto cedere di fronte all’irrefrenabile euforia di giocatori e tifosi.



Nel primo lockdown in molti si erano convinti che ne saremmo usciti migliori. Altri replicavano che invece rischiavamo di uscirne peggiori. Questi segnali paiono indicare che ne stiamo uscendo (se ne stiamo uscendo) tali e quali a come vi siamo entrati.