“Vite mie” di Yari Selvetella: scegliersi oltre la famiglia istituzionale

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Tra caos, fatica, gioia, sentimenti, fantasmi, Selvetella ha un modo bellissimo di raccontare la quotidianità.

“Vite mie”, di Yari Selvetella (Mondadori) arriva dopo “Le regole degli amanti” (Mondadori, 2022) ed è un omaggio alla vita, all’amore, a questa cosa senza nome che ci tiene legati nonostante tutto. Claudio Prizio, infanzia da borgataro romano, è un uomo di 45 anni che si occupa dei suoi figli anche se, geneticamente, non sono tutti suoi. Ma non importa, lui (e i ragazzi) sanno che c’è qualcosa che travalica le convenzioni, alla faccia di chi inneggia alla famiglia tradizione, qualcosa consolidatosi sul vissuto assieme, sulla compartecipazione al dolore, sui momenti di gioia. Sui gesti di ogni giorno, su quel lessico familiare richiamato in fascetta, sull’abitudine a prendersi cura l’uno dell’altro, ognuno a modo suo.
Cosa succede se in questa routine ci si percepisce non più adeguati, non più incastrati come prima? Se chi dispensa amore non si sente più un perfetto esecutore? Se ogni tanto si sente il bisogno di evadere, di restare soli, e non basta più regalarsi l’unica sigaretta della giornata?
Tra caos, fatica, gioia, sentimenti, fantasmi, Selvetella ha un modo bellissimo di raccontare la quotidianità (e le sue contraddizioni, la sue vie di fuga, i suoi dubbi, le sue esitazioni) intridendola di poesia e non è solo un’eleganza stilistica, perché l’autore coglie in pieno quella che è la poesia della vita. Che si può trovare in una colazione, nell’allestimento di una cena, in una premura, in un ricordo che stringe il cuore. Nella dolcissima Micol, l’ultima arrivata. In Carlo da poco laureato in astrofisica, in Tiziano che farà il regista, in Nico, dall’odore di miele. E in Agata, che partecipa con grazia a quell’identità collettiva che viene così descritta:



“La nostra famiglia è un sistema di pianeti e al centro di questo sistema c’è il riflesso di tutti noi, insieme: la volontà di non perderci, di volerci bene; è questo e nient’altro a esercitare la gravità, a mantenerci nelle nostre orbite”.
Lo spazio per l’amore è sempre sorprendente e si dilata da quello per le persone a quello che abbraccia la città eterna, con le sue strade, la sua nostalgia, la sua decadenza languente, tanto più che epicentro del libro è una casa in via del Colosseo e Roma si dispiega col suo incantesimo.
Poi c’è il tempo, inesorabile e inafferrabile, chiaro demone di Selvetella che non riesce a suddividerlo in compartimenti stagni, perché quello fluisce beffardo e forse è più facile attorcigliarlo che capirlo, godersi i piccoli istanti di felicità oppure tuffarsi ogni tanto in un passato che è anche magicamente presente.
Questo libro è qualcosa di prezioso, perché ti riconcilia col mondo e ti ricorda che oltre le nostre piccole manchevolezze c’è ovunque una bellezza palpitante e tocca soprattutto a noi coglierla.