Non c’è dio né divinità
Questa negazione si riferisce solamente all’aspetto creativo del divino. Resta ferma l’ipotesi di uno spirito coeterno ed immanente all’universo.[1]
Un esame attento della validità delle prove addotte a sostegno di proposizioni di questo tipo è l’unico modo in cui si possa davvero attingere la verità; sull’utilità della cosa non è necessario il disincanto: il nostro sapere riguardo all’esistenza di una divinità è una questione così complicata che non può essere indagata in modo troppo minuzioso. Come conseguenza di questa convinzione procederemo brevemente e in modo imparziale ad esaminare le varie prove che sono state addotte. Prima di tutto sarà necessario considerare la natura della credenza.
Quando si offre al pensiero una qualsiasi proposizione, la mente percepisce l’accordo o il disaccordo delle idee di cui è composta [2]. La percezione del loro accordo è ciò che chiamiamo credenza. Spesso sopraggiungono molti ostacoli a fare in modo che questa percezione sia immediata e la mente tenta di rimuoverli affinché tale percezione sia distinta. La mente è attiva in questa indagine e ciò allo scopo di perfezionare la percezione della relazione che le idee apportano a ciascuna proposizione, che è passiva: il fatto che l’indagine venga confusa con la percezione ha condotto molti a immaginare a torto che nella credenza la mente sia attiva – che la credenza sia cioè un atto di volizione [3] – e che di conseguenza possa essere regolata dalla mente. Assecondando questo errore, essi hanno attribuito un grado di criminalità alla miscredenza [4]; della quale, nella sua natura, la mente è incapace, come allo stesso modo essa è incapace di merito.
La credenza è allora una passione [5] la cui forza, come nel caso di ogni altra passione, è nella precisa proporzione dei gradi di eccitazione.
I gradi di eccitazione sono tre.
I sensi sono le risorse [6] di ogni conoscenza che la mente abbia; di conseguenza la loro evidenza richiede il più forte assenso.
La decisione [7] della mente, fondata sulla nostra propria esperienza e derivata da queste risorse, richiede il prossimo grado.
L’esperienza degli altri, che si riferisce al primo grado, occupa il grado meno rilevante.
(Una scala graduata, sulla quale dovrebbero essere segnate le capacità delle proposizioni di conformarsi alla prova dei sensi, dovrebbe essere il giusto barometro della credenza e quest’ultima dovrebbe essere correlata ad essi.)
Di conseguenza non può essere ammessa nessuna testimonianza che sia contraria alla ragione; la ragione è fondata sull’evidenza dei nostri sensi [8].
Ogni prova può essere riferita ad una di queste tre suddivisioni: bisogna considerare quali argomenti riceviamo da ognuna di esse; essi dovrebbero convincerci dell’esistenza del divino.
Se la divinità debba apparirci, se dobbiamo convincere i nostri sensi della sua esistenza, questa rivelazione dovrebbe necessariamente essere alla base della credenza. Coloro ai quali la divinità sia così apparsa hanno la convinzione più forte possibile della sua esistenza. Ma il dio dei teologi è incapace di visibilità locale [9].
Urge che gli uomini sappiano che ogni cosa che esiste deve aver avuto un principio, oppure deve esistere sin dall’eternità; inoltre occorre sapere che tutto ciò che non è eterno deve aver avuto una causa. Quando questo ragionamento viene applicato all’universo, è necessario provare che esso sia stato creato; fino a che ciò non viene dimostrato chiaramente [10], possiamo supporre ragionevolmente che esso duri da tutta l’eternità. Dobbiamo accertare che ci sia un disegno prima di inferire l’esistenza di un disegnatore [11]. L’unica idea che possiamo farci della causazione deriva dalla congiunzione costante [12] di oggetti e dalla conseguente inferenza dell’uno a partire dall’altro. Nel caso in cui due proposizioni siano diametralmente opposte, la mente crede a quella che è meno incomprensibile – è più facile infatti supporre che l’universo esista dall’eternità che concepire un essere oltre i suoi limiti capace di crearlo: se la mente si riduce sotto il peso di un tale essere, incrementare l’insopportabilità di questo peso è come alleggerirsi?
L’altro argomento che si fonda sulla conoscenza che un uomo ha della propria esistenza consiste in questo: un uomo sa non solo di esistere nel presente, ma anche che in passato non esisteva, di conseguenza egli deve aver avuto una causa. Ma la nostra idea di causazione è l’unica che si possa far derivare dalla congiunzione costante di oggetti e dalla conseguente inferenza dell’uno dagli altri e, ragionando in modo sperimentale, possiamo soltanto inferire dagli effetti cause esattamente adeguate [13] a quegli effetti. Ma c’è certamente un potere generativo che è realizzato da certi strumenti; non possiamo provare che ciò sia inerente a questi strumenti, né però l’ipotesi contraria è suscettibile di dimostrazione. Ammettiamo che il potere generativo sia incomprensibile, ma supporre che il medesimo effetto sia prodotto da un essere eterno, onnisciente ed onnipotente lascia la causa nella stessa oscurità, rendendola persino più incomprensibile. [14]
Si richiede che la testimonianza non vada contro la ragione. La testimonianza che la divinità convinca i sensi degli uomini della sua esistenza può da noi essere ammessa solo a condizione che la nostra mente consideri meno probabile che questi uomini si siano ingannati piuttosto che la divinità sia loro apparsa [15]. La nostra ragione non può mai ammettere la testimonianza di uomini che non solo dichiarano di essere stati testimoni oculari di un miracolo, ma anche che affermano l’irrazionalità del divino [16]; poiché un uomo di tal sorta ha ordinato che gli si debba credere, proponendo il massimo premio per la fede nelle sue parole e castigo eterno a chi invece non gli creda. Possiamo comandare soltanto le azioni volontarie, ma la credenza non è un atto di volizione; la mente è perfino passiva [17], o attiva in modo involontario, per questo è evidente che non abbiamo una testimonianza sufficiente o piuttosto che la testimonianza è insufficiente a provare l’esistenza di un dio. È stato mostrato sopra che ciò non può essere dedotto dalla ragione. Allora, solo coloro i quali siano stati convinti dall’evidenza dei sensi possono crederci [18].
Da ciò è evidente che, non essendoci prove da nessuna delle tre risorse della convinzione, la mente non può credere all’esistenza di dio creatore; è anche evidente che, poiché la credenza è una passione della mente, non si può attribuire alla miscredenza alcun grado di criminalità e che sono soggetti a critica solo coloro che dimenticano di rimuovere il falso medium attraverso il quale la loro mente valuta ogni oggetto della discussione [19]. Ogni mente che riflette deve comprendere che non ci sono prove dell’esistenza di una divinità.
Dio è un’ipotesi [20] e, come tale, abbisogna di prove: l’onus probandi spetta al teista. Sir Isaac Newton dice: «Hypotheses non fingo, quicquid enim ex phaenomenis non deducitur, hypotesis vocanda est; et hypoteses vel metaphysicae, vel physicae, vel qualitatum occultarum seu mechanicae, in philosophia experimentali locum non habent» [21]. A tutte le prove dell’esistenza di un dio creatore, si applichi questa regola sempre valida. Si vedono molti corpi in possesso di vari poteri, ma noi ne conosciamo appena gli effetti: siamo in un notevole stato di ignoranza per quel che riguarda le loro essenze e le loro cause. Questi Newton chiama i fenomeni delle cose, ma l’orgoglio della filosofia non sembra voler ammettere la propria ignoranza sulle loro cause [22]. A partire dai fenomeni, che costituiscono l’oggetto dei nostri sensi, tentiamo di inferire una causa che chiamiamo Dio e gli attribuiamo in modo gratuito ogni qualità negativa [23] e contraddittoria. Da tale ipotesi inventiamo questo nome generale, per sopperire alla nostra ignoranza delle cause e delle essenze. L’essere chiamato Dio non risponde in nessun modo alle condizioni prescritte da Newton; ciò presenta ogni segno di un velo agitato da un concetto filosofico, con cui i filosofi nascondono perfino a se stessi la propria ignoranza. Essi prendono in prestito i fili di questo tessuto da un volgare antropomorfismo [24]. Le parole sono state utilizzate dai sofisti per gli stessi scopi, dalle qualità occulte dei peripatetici all’effluvium di Boyle alle crinities o le nebulae di Herschel [25]. Dio è rappresentato come infinito, eterno ed incomprensibile; egli non può essere contenuto in ogni predicato che la logica dell’ignoranza possa fabbricare [26]. Perfino i suoi adoratori ammettono che è impossibile formarsi una idea sul suo conto: essi esclamano, con il poeta francese, Pour dire ce qu’il est, il faut être lui-même [27].
Lord Bacon dice che l’ateismo lascia all’uomo la ragione, la filosofia, la pietà naturale, le leggi, la reputazione, e tutto ciò che possa servirgli per condurlo alla virtù, ma la superstizione distrugge tutto questo; essa si erge a tiranno sull’intelligenza umana: da qui deriva che l’ateismo non reca danni allo Stato [28] ma anzi rende l’uomo più lucido, poiché in tal modo egli non vede nulla oltre i limiti della vita presente – cfr. i Moral Essays di Bacon.
La prima teologia [29] prodotta dall’uomo gli fece in un primo momento temere e adorare gli elementi stessi, oggetti grossolani e materiali della natura; egli successivamente omaggiò gli agenti che controllano tali elementi, geni inferiori, eroi o uomini dotati di grandi qualità. Con la forza della riflessione egli cerca di semplificare le cose sottomettendo tutta la natura ad un singolo agente, lo spirito, o anima del mondo, che avrebbe dato il movimento alla natura e ad ogni parte di cui questa si compone. Risalendo di causa in causa, l’uomo mortale ha finito con il non vedere nulla ed è in questa oscurità che egli ha collocato il suo dio; è in questo abisso tenebroso che la sua inquieta immaginazione ha sempre faticato per creare chimere, che continueranno ad affliggerlo fino a che la sua conoscenza della natura inseguirà queste fantasie che egli ha sempre adorato [30].
Se vogliamo esporre le nostre idee sulla divinità, siamo obbligati ad ammettere che, attraverso il termine Dio, l’uomo non è mai stato capace di designare altro che la causa più nascosta, più distante e più sconosciuta degli effetti che vedeva; egli ha fatto uso di questa parola solo quando il gioco delle cause naturali e conosciute non si prestava ad essere visibile. Non appena egli perdesse il filo di questa serie di cause, oppure quando la sua mente non potesse più seguire la catena, egli si sbarazzava della difficoltà e metteva fine alle proprie ricerche chiamando Dio l’ultima delle cause, cioè ciò che sta dietro a tutte le cause che egli conosce; così egli non faceva altro che assegnare una denominazione vaga ad una causa sconosciuta, alla quale la sua pigrizia intellettuale o i limiti della sua conoscenza lo forzavano a fermarsi. Ogni volta che diciamo che Dio è l’autore di qualche fenomeno, significa che ignoriamo come tale fenomeno possa prodursi in virtù solo di forze o cause che operano in natura. È così che la generalità degli uomini, la maggior parte dei quali è ignorante, attribuisce alla divinità non soltanto gli effetti inusuali che li sconvolgono, ma inoltre anche gli eventi più semplici, le cui cause sono facili da capire per chiunque sia capace di dedicarsi al loro studio. In una parola, l’uomo ha sempre rispettato le cause sconosciute, gli effetti sorprendenti che la sua ignoranza lo ha trattenuto dal rivelare. Fu in questi rottami della natura che l’uomo edificò l’immaginario del colosso del divino.
Se l’ignoranza della natura ha dato origine agli dèi, la conoscenza della natura si è adoperata per la loro distruzione [31]. Nella misura in cui l’uomo si è coltivato, la sua forza e le sue risorse sono aumentate insieme alla conoscenza; la scienza, le arti, le varie attività gli hanno fornito assistenza; l’esperienza lo ha rassicurato o gli ha procurato i mezzi per resistere agli sforzi di molte cause che hanno smesso di allarmarlo non appena venissero comprese. In una parola, i suoi terrori si sono dissipati nella misura in cui la sua mente si è illuminata. Una volta educato, l’uomo ha smesso di essere superstizioso. […]
NOTE