La “libertà di scelta” si deve poter discutere

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Se sul burka lo sdegno è quasi unanime, quando si tratta del “semplice” velo si aprono i varchi al distinguo, entrando nel paludoso terreno della “libertà di scelta”.

Ha fatto il giro del mondo Non toccare i miei abiti, traduzione italiana della campagna social  #DoNotTouchMyClothes sviluppata nei giorni scorsi da centinaia di donne di origine afgana in supporto alle coraggiose che rischiano la vita solo perché osano portare nelle strade di Kabul e di altre città del paese cartelli contro l’apartheid sessuale talebano.
La campagna ha davvero commosso l’opinione pubblica globale: il contrasto doloroso, nelle immagini postate, tra l’uniformità cadaverica del burka, nuovamente obbligatorio dopo il ritorno della dittatura islamica, e la coloratissima varietà di abiti tradizionali afgani, nella maggior parte indossati senza alcuna copertura del volto e dei capelli, è la prova plasticamente evidente che la tradizione culturale fa a pugni con i dettami religiosi imposti sui corpi delle donne, sulle loro vite e i loro comportamenti, ed è un palese falso ideologico che salda la visione patriarcale con la fede religiosa usata dall’islam politico come ideologia misogina.



Ma se sul burka lo sdegno è quasi unanime quando invece si tratta del ‘semplice’ velo si aprono i varchi al distinguo, entrando nel paludoso terreno della ‘libertà di scelta’, una forma di religione diffusa soprattutto nel mondo laico che indietreggia di fronte al conflitto e all’esercizio del pensiero critico sui alcuni temi, definiti da un decennio ‘divisivi’, come appunto il velo, (che tra i simboli religiosi è l’unico che norma il corpo delle donne e quindi di conseguenza la relazione tra i sessi), la gpa e la prostituzione.
Mentre per le due ultime fattispecie il dibattito non può eludere l’intreccio tra sessualità, corpo, mercato e denaro e, pur con fatica e fuoco incrociato, la discussione è in corso in Europa, quando si tocca l’islam e se si apre il conflitto su velo, burkini, e hijab ecco irrompere lo stigma dell’islamofobia e l’accusa, nel mondo progressista e di sinistra, di sostenere il razzismo e le politiche anti migratorie della destra.

La religione ‘delle vittime’ (intendendo così tutti i migranti come islamici e credenti) non è criticabile: prova ne è l’attenzione data a quella che viene definita ‘sfida’ al divieto francese al velo per le donne che giocano a calcio.
Nell’articolo tradotto su Internazionale sull’argomento, e non è il primo, si dà conto delle difficoltà di alcune giovani calciatrici in Francia, che siccome vogliono indossare l’hijab anche in campo non lo possono fare dall’entrata in vigore, ad agosto del 2021, della legge contro il separatismo religioso.
Simbolo del movimento, si legge nell’articolo, è il collettivo Les hijabeuses, guidato da Karthoum Dembelé e da altre calciatrici dei dintorni della capitale che indossano l’hijab, un collettivo fondato nel 2020 da un gruppo di ricercatrici e attiviste di Citizen’s alliance, che si batte contro ‘l’ingiustizia sociale’ in Francia.
Le affermazioni riportate nell’articolo, che piacciono molto a chi sostiene che il velo debba avere legittimità nello spazio pubblico, (in Italia però molti attivisti e attiviste di sinistra, e femministe, sostengono che il crocifisso nelle aule scolastiche, nei tribunali e negli ospedali sia un insopportabile arbitrio religioso contro la laicità delle istituzioni) sono ad esempio: “Ci battiamo per un calcio più inclusivo, che integri tutte le donne” o anche “Non sto difendendo il velo, ma la libertà di scelta”. Quest’ultima dichiarazione nell’articolo dell’attivista sportiva e giornalista Shireen Ahmed è corredata anche da due interessanti puntualizzazioni: la prima è che “vedere più giocatrici musulmane con l’hijab contribuirebbe a normalizzare la diversità agli occhi dell’opinione pubblica” accanto alla seconda, ancora più singolare: “Chiediamo alle donne di dare il meglio di sé come atlete, e poi non le lasciamo decidere quale uniforme indossare”. Quando si tratta di donne, dunque, basta procedere per strategie, (e non uso a caso la parola di matrice militare molto praticata anche nel marketing), di normalizzazione, appunto: si potrebbe iniziare con il favorire la diffusione di hijab e burkini per tutte, istituendo poi, per coerenza, corsi di studio nelle scuole e nelle università, palestre e piscine separati per sesso, così da normalizzare l’apartheid tra donne e uomini, come nel Sudafrica pre Mandela che divideva la popolazione bianca da quella nera. In questa ottica, però, perché stigmatizzare il recente operato dei talebani in Afganistan?



Del resto, come autorizza a pensare Shireen Ahmed, se la copertura islamica è definita una uniforme si legittima un orizzonte di pensiero e di pratiche di stampo relativista che equipara, nel nome della libertà di scelta, la sottomissione e la segregazione di un sesso rispetto all’altro su base religiosa, con buona pace della laicità dello stato e dei diritti umani universali: diventa quasi surreale sostenere che i diritti delle donne sono universali, che la loro presenza segna e determina il grado di civiltà della società, se poi si tentenna nell’aprire il conflitto con chi porta nello spazio pubblico l’unico simbolo religioso che sottolinea, mortificandolo, il corpo femminile quale anticamera del peccato e della sessualità. Non sia mai che si scomodino gli uomini ad assumersi responsabilità individuali e collettive sul loro desiderio e i loro comportamenti, senza mettere in campo vari strati di stoffa addosso alle donne per definire la loro devozione e giustezza.


-L’hijab non è un segno di sottomissione, è un velo che protegge le donne dallo sguardo maschile e quindi protegge gli uomini dalla tentazione.
– Quindi per una protezione più efficace…
(Vignetta da Brisons le mythe)







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