“Preghiera nell’assedio”, di Damir Ovčina

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“Guardo l’agenda, è dell’anno Novantadue. Il primo gennaio. Apro le pagine con scritto sulla parte superiore NOTES e scrivo in cirillico cosa ho visto e sentito. Davanti a ciò che ho visto scrivo il numero uno in lettere. Davanti a ciò che gli altri dicono di aver visto scrivo il due e davanti a ciò che gli altri dicono di aver sentito il tre. Nella seconda riga, in mezzo alla frase, scrivo abbreviati la data e il luogo usando solo le iniziali. In quindici minuti riempio due pagine”.
Come inizia una guerra? Preghiera nell’assedio è un romanzo di Damir Ovčina, che Keller editore ha pubblicato in italiano, tradotto da Estera Miočić. Esistono testi che però è difficile confinare in un genere. Ovčina ci trascina in un diario, in una cronaca di guerra dal punto di vista delle vittime, in un conflitto d’identità tra vivere e morire, nel pozzo senza luce di un assedio vissuto lavorando per il nemico.



Nato a Sarajevo, dove vive tutt’ora, Ovčina non aveva neanche vent’anni quando scoppia la guerra in Bosnia – Erzegovina, quando la comunità serba – sobillata da Belgrado – prende le armi dopo il referendum per l’indipendenza di Sarajevo che, sulle orme di Slovenia e Croazia, nel 1991, si svincola dalla federazione della Jugoslavia. Quello in Bosnia-Erzegovina, in particolare con il genocidio di Srebrenica e rispetto all’assedio di Sarajevo (il più lungo nella storia bellica della fine del XX secolo), diventa il conflitto più sanguinoso della dissoluzione jugoslava.
Per Ovčina la guerra inizia con la morte della madre, per malattia, e con la voglia di far l’amore con la sua fidanzata. Due eventi opposti, di eros e thanatos, che sarebbero normali per chiunque, ma non per un ragazzo di famiglia musulmana nella Sarajevo degli anni Novanta. Resta bloccato nella zona della città sotto controllo militare dei serbi, finisce arruolato a forza nella Protezione Civile del neonato stato della Repubblica Serba di Bosnia, in un team che ha il compito di seppellire morti e scavare trincee.
Un punto di vista unico, potente, nella sua tragicità. Quello che ne nasce è un libro unico, straordinario, sia per la storia che racconta sia per uno stile, feroce e lineare, essenziale e tragico. Mai patetico. Un romanzo, un diario, un reportage dal cuore della guerra.

Con un ritmo a tratti claustrofobico, Ovčina tiene memoria. Scrive, tutto. Per ricordare, per non dimenticare. Sembra di vedere all’opera, molti anni dopo, lo storico Emanuel Ringelblum, che nel Ghetto di Varsavia seppellisce bottiglie con le storie degli ebrei massacrati dai nazisti, perché non se ne perda la memoria.
Ovčina riesce a raccontare la guerra meglio di mille reportage dal fronte. L’elenco quasi ossessivo del nome delle strade, degli oggetti, molti dei quali simbolici dell’esistenza della ex-Jugoslavia, il racconto dei luoghi, creano una geografia della memoria, una cartografia sentimentale di una Sarajevo che non esiste più, spazzata via dal conflitto e dalle sue cicatrici. Ovčina ricorda a tutti noi, che le guerre le guardiamo e le commentiamo da lontano, empatici o distaccati, che la guerra arriva, semplicemente, mentre fai l’amore, mentre ceni con tuo padre, mentre vai al funerale di tua madre. E arriva con il volto del vicino di casa, del vecchio compagno di scuola. Un ritmo serrato, che nella apparente ripetitività dei giorni, in realtà, lascia senza respiro. Perché quei giorni, in ogni singola sepoltura, in ogni piccola e grande violenza, sono il racconto di come muore la multiculturalità che Sarajevo rappresentava. Dall’arrivo dei feroci paramilitari da fuori, fino alla fine di tutti quelli che non sono “etnicamente” puri, passando per come la guerra sia prima di tutto una rapina: di vite, di donne stuprate, di oggetti rubati. Di asili che diventano caserme, di studi dentistici che diventano comandi militari, di ex fabbriche che diventano luoghi di tortura.





Nel romanzo di Ovčina convivono il paradosso della noia, nella morte che si normalizza, come la vita che resiste, anche in mezzo all’orrore. E del tempo che esplode, per sempre, pur sembrando immobile. Parlando di uno di quelli che si è ammalato di nazionalismo, Ovčina lo cita mentre dice: “Ora si è completamente orientato verso la storia, perché e lì che sono contenute le risposte a tutte le questioni importanti, e il futuro non è altro che una forma diversa di passato. Tutto quello che sarà è determinato da quello che è già stato, c’è poco altro da aggiungere”. Perché è la memoria delle comunità che devi distruggere, manipolando in chiave aggressiva il passato, per scrivere il futuro che la guerra vuole.
Ovčina non risparmia nessuno, neanche sé stesso, a cui non riconosce nessun ruolo di testimone della storia, né di vittima. Il caso lo ha posto al centro della storia, sulla sua pelle, come decine di migliaia di persone. Ovčina ha solo preso questo caso, ne ha fatto un romanzo, che racconta il dovere della memoria e del ricordo.
Questo è un romanzo sulla natura umana, sulla sopravvivenza e sull’orrore. È un romanzo per ogni guerra, per ogni vita, per ogni politica di odio e divisione. È il romanzo suo e nostro, per non sentirci mai troppo al sicuro di fronte agli imprenditori della paura.