Senegal, il popolo in rivolta per la democrazia

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Dal 1 maggio le proteste sono scoppiate nel Paese per la condanna del capo dell'opposizione e per una possibile ricandidatura del presidente.

Barricate, lacrimogeni, negozi saccheggiati, auto in fiamme e colonne di fumo. Sono immagini decisamente inusuali per il Senegal, baluardo della democrazia in Africa occidentale, isola di stabilità in una regione tumultuosa e meta accessibile per numerosi turisti.
Giovedì scorso, qualcosa è cambiato. Violenti scontri hanno provocato 19 morti, 350 feriti, 500 arresti. La ragione? Una classe politica pervasa da una incontenibile hybris, disposta a tutto pur di continuare a governare. E una popolazione giovane che non ci sta, che chiede democrazia, libertà, giustizia.
Sembra una storia già sentita, già vissuta in diversi Paesi africani. Basti pensare al colpo di stato del 2014 in Burkina Faso, quando la popolazione è scesa in piazza per cacciare Blaise Compaoré, al potere da 27 anni e pronto a modificare la costituzione per candidarsi nuovamente.



Oggi, a nove mesi dalle prossime elezioni, è il turno del pacifico Senegal. Il presidente Macky Sall, ingegnere geofisico sessantatreenne, eletto nel 2012 e confermato nel 2019, sembra intenzionato a correre per un terzo mandato. O così si teme, dal momento che da lui non arrivano conferme né smentite. La legittimità della sua candidatura è lasciata a una fantasiosa interpretazione: nel 2016 una revisione della Costituzione ha ridotto la durata dei mandati presidenziali da sette a cinque anni; e benché l’articolo 27 appaia di una chiarezza lapalissiana, “nessuno può esercitare la carica per più di due mandati consecutivi”, qualcuno pensa che il primo mandato, precedente alla riforma, non debba essere contabilizzato.
A dare concretezza al tutto si aggiunge una telenovela giudiziaria che da due anni tiene sulle spine il Paese, scatenando proteste a più riprese, fino alle ultime sfociate nella violenza a seguito della condanna di Ousmane Sonko, principale oppositore del presidente.

Ma riavvolgiamo il nastro. Ousmane Sonko, 48 anni, ispettore delle tasse e viso pulito da ragazzino, è il leader del partito Pastef (Patriotes africains du Sénégal pour le travail, l’étique et la fraternité). Nel 2019 si candida alle elezioni, arrivando terzo. Denuncia la corruzione del governo, i paradisi fiscali delle élite, la riduzione delle libertà democratiche. Conquista i giovani tramite i social network, diventando popolare soprattutto tra gli universitari. E sempre più inviso al governo.
Nel 2021 viene accusato dello stupro ripetuto di una dipendente di un salone di massaggi, lo “Sweet Beauté”, di cui era cliente abituale a causa di dolori cronici alla schiena. Per Sonko e i suoi sostenitori si tratta solo di un complotto, un affare politico per impedirgli di concorrere alle presidenziali del 25 febbraio 2024 e lasciare il campo libero a Sall. Mentre si attende l’esito del processo, si aggiunge l’accusa di diffamazione ai danni del Ministro del Turismo, per la quale Sonko subisce una condanna a sei mesi con condizionale. Per la prima imputazione, invece, l’accusa chiede dieci anni per stupro, o, in alternativa, cinque per corruzione di giovani (“favorire la dissolutezza di un minore di 21 anni”).



Nelle ultime settimane la tensione cresce. Sonko ha il supporto dei suoi follower, più numerosi di quelli del presidente. Così quando, durante la penultima udienza, si ritira a Ziguinchor, città di cui è sindaco, giovani militanti vegliano su di lui, proteggono la sua abitazione e bloccano le strade circostanti per impedire tentativi di arresto. Forte del supporto locale, il 26 maggio, decide di lanciare una “carovana della libertà”, con l’idea di arrivare a Dakar per l’ultima udienza in testa a un convoglio popolare. Ma quei 500 chilometri si interrompono presto: la polizia lo intercetta e lo scorta nella sua casa della capitale, dove resta ad attendere il verdetto.
Finché, il 1 giugno, viene diffusa la notizia: l’accusa di stupro è rigettata, ma Sonko viene condannato a due anni per corruzione di giovani. Scoppiano violente proteste. Anche la diaspora manifesta, per le strade di Parigi, New York e perfino in Italia: lunedì scorso in cinquanta fanno irruzione nel consolato di Viale Certosa a Milano, ne devastano e saccheggiano le stanze, mentre a Brescia un centinaio di persone sfila in piazza.

“La sua responsabilità è senza appello” dicono i tre più grandi scrittori e intellettuali del Paese, Boubacar Boris Diop, Felwine Sarr e Mohamed Mbougar Sarr, in un accorato manifesto in cui denunciano la deriva autoritaria del presidente, l’anacronistica limitazione di libertà acquisite e il crescente clima di repressione in cui versa il Paese. “Basterebbe che un uomo dicesse: rinuncio al terzo mandato, che disonorerebbe la mia parola, il mio Paese e la sua costituzione, perché la collera che si esprime nelle strade si attenuasse. Quest’uomo, è il presidente della Repubblica.”
Intanto in Senegal, a pochi giorni dagli scontri, le trasmissioni televisive sono bloccate, l’accesso a internet e ai social network ridotto, i festival sospesi a tempo indeterminato. E Sonko, è ai domiciliari.







Chiara Piaggio ha firmato anche l’articolo
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Foto dal video di LifeGate, Twitter