Test psicoattitudinali per i magistrati, punitivi e comunque inutili

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Si parla di riflesso condizionato (o pavloviano) quando, abituato da uno stimolo al verificarsi di un effetto, il soggetto che a quello stimolo reagisce si prepara già all’effetto in precedenza sperimentato. Così, nell’ormai pluridecennale situazione di conflitto tra magistratura e politica nel nostro Paese, anche nel caso dei test psicoattitudinali, magistrati da una parte e politici (di destra o sinistra a seconda delle circostanze) dall’altra hanno reazioni opposte, di tipo pavloviano: i primi gridano all’ennesimo attentato alla loro indipendenza; i secondi si rallegrano per una misura da tempo attesa nei confronti dei magistrati che danno prova di scarso equilibrio, soprattutto politico.
Ora, se si guarda senza pregiudizi ai purtroppo non infrequenti casi di mala-giustizia, si deve constatare che mai – se non entro limiti fisiologici – quei casi e quegli esiti sono dovuti a problemi mentali o psicologicamente accertabili “a priori” nei loro protagonisti.
Il mestiere del magistrato è – in una prospettiva psicofisica – tra i più difficili e, per usare un’espressione nata nel campo dei lavori materiali, usuranti. Le componenti di questa condizione sono le più diverse: lo stress e la tensione di far fronte, con l’obbligo di deciderle comunque, a situazioni di conflitto spesso inestricabili; la consapevolezza di provocare, con le proprie decisioni civili o penali, sofferenze e privazioni spesso incomprensibili da parte di chi deve subirle; la povertà endemica dei mezzi a disposizione in termini di personale e strutture; la crescita esponenziale dei ricorsi alla giustizia, che la mediazione non riesce a contenere; la farraginosità delle procedure.  Non ultimo, tra questi fattori, il grande potere attribuito dalla nostra costituzione a una giurisdizione felicemente non “garantita” dal carattere elettivo.
A fronte di questa situazione, non crediamo che la proposta dei test psicoattitudinali costituisca – anche se formulata in buona fede e non (come probabile) in funzione “punitiva” – un rimedio destinato a produrre qualche effetto, come è testimoniato, tra le altre, dalla significativa, fallimentare, esperienza francese.
L’equilibrio, la capacità di autocritica, l’eccessiva emotività, la disponibilità all’ascolto e il senso alto della funzione sono tutte qualità impossibili da accertare attraverso la somministrazione di test, o attraverso colloqui necessariamente superficiali cui sottoporre centinaia di candidati che hanno intrapreso un percorso tra i più impervi e si trovano ora – superate le tre prove scritte – sul punto di raggiungere una meta tanto ambita. Qualità essenziali come l’attitudine al giudizio e l’equilibrio, difficilmente si possono riscontrare all’inizio di una carriera giudiziaria, ma si acquistano e si affinano solo con l’esercizio pratico della giurisdizione.
I test, i colloqui, vengano pure, li si sperimenti, ma senza riserve mentali e nella consapevolezza della loro scarsa utilità.
Sarebbe piuttosto opportuno reintrodurre il periodo biennale in cui il giovane magistrato, invece di essere gettato direttamente nella mischia, esposto – solo – alle decisioni più rischiose per lui e per la società, fosse sottoposto, oltre che a specifici momenti di ulteriore formazione, a prudente e puntuale osservazione da parte dei capi degli uffici, in vista del suo passaggio definitivo nei ranghi della magistratura.
Per il resto, basterebbe il puntuale funzionamento dei Consigli Giudiziari (integrati da rappresentanti dell’Avvocatura) e, soprattutto, dello strumento della responsabilità disciplinare, gestito dal Consiglio Superiore della Magistratura con una più severa attitudine a garantire l’indipendenza, ma anche il prestigio, dei giudici italiani.



CREDITI FOTO: ANSA/FABIO FRUSTACI