Attentato a Salman Rushdie: gli islamisti, come i mafiosi, non dimenticano

Categorie: Contrappunto, Mondo, Rubriche

Sarebbe un segnale forte se dagli ambienti musulmani che non si riconoscono nella violenza partisse una campagna di solidarietà.

Lo sanno bene coloro che sono nel mirino della mafia: una volta che è stata deciso che tu devi essere punito con la morte per aver tradito, può passare una vita intera ma la condanna che è stata emessa sul tuo capo rimarrà sempre valida e i sicari ti inseguiranno fino in capo al mondo, o aspetteranno con pazienza che tu abbassi la guardia, convinto che il tempo faccia dimenticare… Ma la mafia non dimentica. C’è un solo modo modo per sfuggire alla condanna a morte emessa dalla mafia: morire. È quello che fanno i testimoni di giustizia cambiando identità e sperando di poter rinascere altrove, in un’altra vita.



E anche gli islamisti non dimenticano. La fatwa contro Salman Rushdie risale al 1989, quando l’ayatollah Khomeini condannò a morte lo scrittore reo di aver scritto un’opera letteraria, i Versi satanici, considerata blasfema. Sulla testa di Rushdie pesa anche una taglia di 3 milioni di dollari posta da una fondazione privata iraniana.

La fatwa di Khomeini non è una mera accusa retorica nei confronti di uno scrittore considerato blasfemo, ma una sentenza per così dire “esecutiva”, un ordine impartito a tutti i musulmani del mondo di uccidere il blasfemo. Sentenza confermata e reiterata più volte nel corso degli anni dal regime iraniano, e che ha già lasciato una scia di sangue: nel luglio del 1991, il traduttore italiano dei Versi, Ettore Capriolo, fu picchiato e ferito a coltellate. Nello stesso mese fu assassinato il traduttore giapponese, Hitoshi Igarash. L’editore norvegese del libro William Nygaard e il traduttore Kari Risvik furono minacciati e, nonostante fossero sotto protezione, Nygaard venne ferito a colpi di pistola l’11 ottobre del 1993.



Rushdie ha anche raccontato che ogni anno nel giorno della promulgazione della sua condanna, il 14 febbraio, riceve un particolare biglietto di San Valentino dall’Iran, dove gli viene ricordato che la condanna non è ancora venuta meno. Metodi tipicamente mafiosi. Ed esattamente come la mafia, il fanatismo religioso sguazza nell’ipocrisia e nell’omertà del resto della società, di quelli che – proprio come chi di fronte alle stragi di mafia si affanna a “prendere le distanze” – a ogni attentato di matrice islamica si affannano a sottolineare che “non ha nulla a che fare con l’islam”.

Kenan Malik, nel suo libro Il multiculturalismo e i suoi critici, riferisce il seguente episodio accaduto poco dopo la pubblicazione nel febbraio 2006 sul quotidiano danese Jyllands-Posten delle vignette su Maometto che scatenarono reazioni violentissime nel mondo musulmano: “Il parlamentare danese Naser Khader, che è musulmano sebbene non osservante, racconta di una conversazione avuta con Tøger Seidenfaden, direttore di Politiken, un giornale di sinistra molto critico verso le vignette. ‘Mi disse che le vignette offendevano tutti i musulmani,’ ricorda Khader, ‘e gli dissi che io non ero offeso’. Lui rispose: ‘Ma lei non è un vero musulmano’. Agli occhi dei progressisti, in altre parole,” commenta Malik, “essere un vero musulmano significa trovare le vignette offensive. Una volta che l’autenticità islamica viene così definita, solo una figura come Abu Laban può essere considerata una vera voce musulmana”. Abu Laban era il capo della Società islamica in Danimarca e fu tra i più accesi critici delle vignette del Jyllands-Posten”. Fu lui a preparare un vero e proprio dossier sulle vignette per chiedere supporto diplomatico in vari Paesi mediorientali contro il giornale. E non si ricordano controproteste del mondo musulmano a difesa dei giornalisti di Jyllands-Posten, ma sempre e solo le solite “prese di distanza” dalla violenza (e ci mancherebbe altro). Il meccanismo del “non è colpa mia, non devo giustificarmi” crea quell’ambiente di indifferenza (“non mi riguarda”) nei i fanatismi religiosi, e le mafie, sguazzano.







Le analogie fra le dinamiche mafiose e quelle del fanatismo religioso sono molte. Ed esattamente come per la mafia, per combattere il fanatismo religioso di cui il terrorismo è solo la manifestazione più estrema è indispensabile farla finita con l’indifferenza e con il “non ci riguarda” e rimboccarsi le maniche per prosciugare attivamente l’humus sociale e culturale di cui si nutre. Sarebbe bello, per esempio, se dagli ambienti musulmani che non si riconoscono nel fanatismo e nella violenza partisse una campagna di solidarietà, un #siamotuttisalmanrushdie, #siamotuttiblasfemi. Perché si ha responsabilità per colpa, ma anche per omissione.