Elezioni in Spagna, non soffia alcun vento di destra

Categorie: Politica, Rubriche

La più chiara indicazione giunta fin da ora dalle elezioni in Spagna è che la vittoria delle destre in Europa è tutt'altro che fatale.

Quando circa un mese fa, dopo la netta sconfitta nella tornata di elezioni comunali – cui è seguita anche la netta sconfitta alle regionali del Molise – la segretaria del Partito Democratico Elly Schlein aveva dichiarato “soffia un vento di destra”, chi scrive aveva recepito con notevole perplessità la dichiarazione. I numeri non autorizzavano, né alle comunali, né alle regionali, né tantomeno alle elezioni nazionali del 2022, a dire che siamo in presenza di un vento di destra. Eravamo invece, e in Italia siamo tuttora, di fronte alla assenza di un qualsiasi respiro di proposta da sinistra, di proposta che sia davvero in grado di ricostruire un consenso ormai perduto nella società che non riesce più a trovare una ragione sentimentale valida per esprimere il suo voto. Perciò, non vota a destra, ma a votare non ci va proprio. La prima significativa differenza fra le ultime elezioni generali italiane e le elezioni in Spagna del 23 luglio 2023 è proprio l’affluenza: in Spagna è cresciuta, superando il 70%, in Italia non è arrivata al 64% subendo uno dei cali più vertiginosi nella storia delle elezioni democratiche europee.



In Spagna le persone sono andate a votare – con l’eccezione della Catalunya, dove si è registrato un netto calo di elettori – e non lo hanno fatto sulla base di una qualche simpatia per il leader carismatico ma in risposta alle politiche concrete e al posizionamento delle diverse realtà politiche riguardo alle situazioni concrete. Nessun leader di partito in Spagna si è infatti posto nella situazione di rappresentare una leadeship carismatica plebiscitaria – il leader del Partido Popular,  Alberto Núñez Feijóo, non ha neanche partecipato per ragioni di salute alle ultime tribune mediatiche e in generale si è distinto per tenere costantemente un profilo bassissimo – ha vinto la capacità di intessere rapporti politici e di alleanza, e di fare leva sulle debolezze altrui. Proprio su questo terreno, Pedro Sánchez ha dato prova di notevole abilità. Ha giocato una scommessa delicatissima convocando le elezioni in luglio dopo il risultato deludente delle regionali di primavera, richiamando così la sua coalizione al compattamento, e ha portato a casa una tenuta elettorale personale, ma soprattutto la sconfitta della coalizione avversaria che non avrà, in ogni caso, i numeri per formare un governo. Il partito ultraderechista Vox ha perso oltre 700mila voti. Una cifra simile, per una coincidenza non tanto casuale, è il calo di voti ottenuto dai partiti indipendentisti. E qui c’è un dato interessante, perché la corrispondenza numerica riflette una corrispondenza politica: il grande successo di Vox degli ultimi anni è stato dovuto innanzitutto allo spurt dell’indipendentismo catalano. In crisi quest’ultimo, la stessa Vox ha perso molto del suo mordente presso l’elettorato. Anche questo suggerisce che non eravamo di fronte a un “vento di destra” ma a una reazione popolare, nella società, a un motivo di profondo disappunto che in buona parte è stato alimentato anche dalla sinistra: l’indipendentismo, lungi dal rappresentare un movimento progressista o per la giustizia sociale, è stato interpretato fuori dalla stessa Catalunya come una volontà di umiliazione e una forma di disprezzo nei confronti della società iberica.

È stato questo a portare molti voti a Vox nel corso degli anni. La destra ovunque nel mondo ha un unico modo per raccattare voti ed è dividere il campo avversario, facendo leva sulle sue reali contraddizioni. Vox era riuscita a crescere così velocemente negli ultimi anni innanzitutto per questo forte sentimento anti- indipendentista della stragrande maggioranza della società spagnola, che si è sentita umiliata dalle aspirazioni dei ricchi catalani. Non per un rigurgito di nazionalismo,  come tanti troppo sbrigativamente da sinistra, sbagliando ancora una volta clamorosamente le loro analisi, hanno sostenuto; bensì perché la Catalunya ha mostrato il suo volto “insolidario” secessionista, in modo tutt’affatto simile alle spinte all’autonomia differenziata italiana, proprio durante l’ultima crisi economica, quella dei mutui, che stava piegando tutta la società. Quel sentimento di umiliazione la sinistra più snob ed elitaria non l’ha compreso, consentendo ai peggiori di interpretarlo e ovviamente deformarlo a modo loro. L’indipendentismo in Catalunya è stato per anni un coacervo di rivendicazioni in cui, in un substrato radicalmente spinto da interessi borghesi alla conservazione della propria ricchezza, si è inserita la questione identitaria, così come, ancor più confusamente, quella repubblicana. Ma cosa possa voler dire – oltre il solito identitarismo figlio di questi tempi in cui la politica ha rinunciato a rappresentare la spinta al cambiamento delle condizioni sociali – la parola “autodeterminazione” per una società del primo mondo che gode di tutti i diritti civili e politici e di uno statuto economico di benessere maggiore rispetto al resto della società, non è affatto chiaro. E le divisioni in seno allo stesso indipendentismo, fiaccato non tanto dalla repressione – che pure ha colpito in forme troppo spesso arbitrarie in questi anni – quanto innanzitutto dalla poca trasparenza e/o chiarezza dei suoi intenti, lo hanno dimostrato.



La perdita di peso e di entusiasmo dell’indipendentismo e la sua sostanziale sconfitta nella società laddove di contro il governo nazionale ha consentito in Spagna la miglior tenuta socioeconomica di tutto il continente europeo a fronte degli smottamenti provocati dalla guerra, hanno fatto venire meno anche una ragione fondante del consenso a Vox. A dimostrazione del fatto che la destra in questa epoca, così come la sinistra, non ottengono né perdono consensi sulla base di una qualche “egemonia culturale” – l’alibi che troppi liberal si stanno dando in questo Paese per non andare a fondo in una analisi più autocritica – ma solo ed esclusivamente nella misura in cui reagiscono in modo convincente o meno alle temperie, siano esse socio-economiche o socio-politiche.

Non è che Pedro Sánchez esca trionfante dalle urne – può comunque dirsi più che soddisfatto perché il PSOE è cresciuto – e, quel che è peggio, in base ai risultati i partiti indipendentisti sono ancora, in posizione di ago della bilancia, in grado di agire in chiave antisociale come hanno fatto in questi anni, e condizionare la possibilità di un Governo. Anche la coalizione SUMAR che ha raccolto il testimone di Podemos non canta vittoria, il suo risultato è inferiore rispetto a quanto aveva ottenuto il predecessore quattro anni fa. Ma di certo il famoso vento di destra agitato qui da noi da una segretaria che non ha ancora mostrato, fin qui, il segno politico che intende imprimere al suo partito, non sta soffiando. E questa è una notizia non solo per Elly Schlein, ma anche e innanzitutto per Giorgia Meloni, che incassa in Spagna la sua prima seria sconfitta politica, con ripercussioni che si sentiranno probabilmente anche sul governo nazionale. La sua leadership infatti esce molto ammaccata, nell’immagine e non solo, da questo risultato, visto quanto si era spesa direttamente per Vox. Il vento di destra che non esiste è un monito anche per lei.







CREDITI FOTO: Pedro Sanchez con Maria Jesús Montero, ministra delle Finanze, e Cristina Narbona, presidente del PSOE, davanti alla sede del partito a Madrid dopo la notizia dei buoni risultati delle urne, 23 luglio 2023. © Alberto Gardin/ZUMA Press Wire)