L’involuzione moralizzatrice della Russia di Putin

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Recensione del libro “La Russia moralizzatrice” di Marta Allevato.

Tanto in Italia quanto all’estero, la crisi del giornalismo è diventata un topos ricorrente della narrazione del nostro tempo, con i risvolti – anche politici – che ben sappiamo. Spesso si dimentica, però, come lontano dai salotti mediatici, preda di un dibattito sempre più ripiegato su di sé e imbarazzante, ci siano giornalisti freelance che, nell’ultimo decennio, hanno offerto una qualità di analisi e informazione straordinaria, ben rimpiazzando il tramonto dei corrispondenti, che ormai si contano sulle dita di una mano. Una nuova generazione di giornalisti all’estero – spesso donne – con una solida formazione accademica e linguistica, assai più dei loro predecessori, capaci di raccontare luoghi e volti vicini e lontani con una sicurezza e una precisione inversamente proporzionale alle tossiche astrazioni geopolitiche che vanno per la maggiore.
Marta Allevato, con alle spalle quasi un decennio trascorso in Russia, è senza dubbio una delle più valide. Quello che colpisce subito nel suo volume appena uscito, La Russia moralizzatrice, edito da Piemme, è la familiarità con cui racconta l’involuzione della Russia putiniana dalla prospettiva della capitale Mosca. Non mi era mai capitato, in italiano, un racconto così fedele a ciò che riferiscono conoscenti e amici russi, oggi in larga parte fuggiti, quando non in carcare.
Ne esce così un ritratto di una generazione di attivisti, intellettuali, ricercatori e artisti, a volte misconosciuti in Italia ma di un valore spesso superiore ai loro corrispettivi europei o americani, cancellati con un colpo di spugna dall’aggressione all’Ucraina e dal nuovo giro di vite imposto dal regime. Un affresco di una generazione perduta, ma che lascia alle spalle una potente testimonianza di come un’altra Russia avrebbe potuto (r)esistere, se solo non la si fosse sacrificata – fra connivenze e cinismo – agli dèi volubili della Realpolitik.
Poche pagine di questo libro, che vuole informare e non deformare il reale, valgono più di quanto potrete mai vedere in televisione o nelle riviste di geopolitica con le loro mappe astruse e multicolori. La cancel culture di Vladimir Putin è una realtà terribile quanto concreta e i danni per la cultura russa (e quella europea tutta) avranno effetti per anni, se non decenni – cosa che si comprende assai bene qui in Germania, in cui attualmente vivo, dove tanti di questi protagonisti hanno trovato rifugio.
Come scrive Allevato:
«Il mio Paese non esiste più» era il commento più diffuso tra i russi che ho sentito nei giorni subito successivi all’invasione. La guerra, che aveva colto tutti impreparati, era l’epilogo rivelatore di un processo che andava avanti da oltre dieci anni e che, tra indifferenza, paura e rassegnazione, aveva portato la Russia a cambiare definitivamente volto.
E proprio questo decennio oscuro, inaugurato dalle grandi proteste antiregime all’alba degli anni Dieci e finito con l’aggressione all’Ucraina, è al cuore del racconto di Allevato, in una transizione verso un regime totalitario che, come spiega bene Mark Galeotti nel suo ottimo podcast In Moscow’s Shadows, è tutt’altro che conclusa.
Ancora Allevato:
Tra il 2011 e il 2012, il movimento di protesta contro i brogli elettorali e il ritorno di Putin al Cremlino era appoggiato dal 40% della popolazione. Con la «riunificazione» della Crimea, passando per le Olimpiadi invernali di Soči dello stesso anno, la popolarità del presidente arriva al livello record dell’86%. Allo stesso tempo, cala la percentuale di russi che ritiene «improbabile» l’esplodere di proteste a sfondo politico nel Paese: a fine giugno del 2014, era la più bassa in quindici anni.
Senza considerare questa parabola, senza tali premesse, è impossibile comprendere come, già ben prima del 2020, la macchina bellica putiniana sia stata legata a doppio filo alla sopravvivenza del regime.
Altro elemento di estremo interesse del libro in questione è la disamina puntuale della componente ideologica del regime e delle tante contraddizioni – tanto nella sfera pubblica che in quella privata, e persino nel sesso – che hanno segnato la vita nella capitale russa e nel Paese. Una questione spesso sottovalutata in passato, sia in Russia sia in Occidente, ma che ha dimostrato e dimostra un potere seduttivo capace di creare una rete di consenso in tutto il mondo, grazie anche alla cassa di risonanza dei social media – e certo non soltanto a destra.
Cuore pulsante del nuovo populismo planetario e del fondamentalismo cristiano, Mosca – più che nella sua aggressione militare, che ancora arranca – trova a tutt’oggi nella messa in discussione dell’egemonia culturale e politica euroamericana il suo più grande trionfo. Serve una buona dose di cattiva coscienza o di leggerezza per non vedere come, per Vladimir Putin, i diritti umani e l’eredità dell’illuminismo siano il nemico da abbattere.
Liberalismo, secolarismo, pacifismo, omosessualità e femminismo (questi i titoli dei capitoli di cui è suddiviso il volume di Allevato) sono cinque punti di un secondo fronte, quello interno, in cui si aggrediscono le conquiste sociali e culturali strappate dalla società civile dopo la caduta dell’Urss, mentre lo stalinismo si coniuga sempre più, paradossalmente, al cristianesimo più tossico (e ipocrita) del nostro tempo.
Allevato, quasi con leggerezza, senza mai forzare la mano o ostentare letture, dà un contributo imprescindibile alla comprensione di alcune delle questioni più urgenti del nostro tempo. Perché comprendere la Russia degli ultimi anni – anche se pochi sembrano averlo realizzato in Italia – significa interrogarsi innanzitutto sul nostro futuro e sui tanti pericoli che incombono su di esso.