Vannacci e il costo dei diritti

In un’Italia intorpidita dal torrido caldo dell’estate del 2023, un alto ufficiale dell’esercito pubblica un libro in cui attacca, con toni diretti e veementi, immigrati, femministe e persone di orientamento omosessuale. Il fatto che giudizi pesanti circolino sui social e sui media nei confronti di queste categorie non è, purtroppo, una notizia. Tuttavia, che una persona con responsabilità di comando nelle Forze armate sottoscriva queste opinioni pone alcuni problemi e merita qualche riflessione.

Ernesto De Cristofaro

In un saggio, intitolato Il costo dei diritti, pubblicato in edizione italiana poco più di vent’anni fa, due studiosi americani, Stephen Holmes e Cass Sunstein, spiegavano che i diritti costano e che la sanità o la scuola – dal cui buon funzionamento dipende assai più che la sola qualità della vita dei beneficiari dei servizi scolastici o ospedalieri – per esistere devono presupporre le tasse, la lealtà fiscale dei cittadini, politiche pubbliche redistributive. Dunque, i diritti hanno un costo economico. Ma i diritti costano anche secondo altri significati. I diritti hanno, hanno avuto per secoli e nei luoghi più diversi, un ampio insieme di costi sociali e umani. Chiunque sfogli la Costituzione italiana, ad esempio, rallegrandosi che essa tuteli la libertà religiosa, la libertà di opinioni politiche o la parità di accesso dei cittadini alle cariche politiche o alle carriere nel pubblico impiego, dovrebbe ricordare che questo elenco di inalienabili facoltà è il risultato di rotture politiche profonde e dolorose rispetto a un passato, non lontanissimo, in cui le donne erano consegnate al ruolo, passivo e silenzioso, di mogli e madri, in cui la politica aveva un solo colore e in cui essere cristiani o ebrei poteva implicare gravi differenze di trattamento legale sotto molteplici profili.

In un’Italia, forse un po’ smemorata o forse intorpidita dal torrido caldo dell’estate del 2023, un alto ufficiale dell’esercito pubblica un libro in cui attacca, con toni diretti e veementi, immigrati, femministe e persone di orientamento omosessuale. Il fatto che giudizi pesanti circolino sui social e sui media nei confronti di queste categorie non è, purtroppo, una notizia. Tuttavia, che una persona con responsabilità di comando nelle Forze armate sottoscriva queste opinioni e ne faccia il centro pulsante di una propria pubblicazione pone alcuni problemi e merita qualche riflessione.
Anzitutto, la cronaca di questo episodio assorbe un’attenzione massiccia che viene sottratta mediaticamente al confronto politico sul merito di altre questioni – l’inflazione, il verificarsi di eventi climatici estremi, i modi per affrontare la povertà diffusa (salario minimo, sostegno al reddito,…), come se si fosse disposti a pensare che, in fondo, se l’Italia risolvesse i problemi delle diverse minoranze che non rientrano nella neo-lingua patriottica (in realtà molto vetero) Dio/patria/famiglia tutto il resto verrebbe da sé. È, sia pure non dichiarandolo, il vecchio gioco del capro espiatorio che, nei momenti di difficoltà, storicamente ha sempre funzionato. Perché attardarsi sui nodi del bilancio, sul sostegno agli indigenti, sulla difesa del territorio da eventi catastrofici se si può far circolare l’idea che il problema, il reale problema, dell’Italia sono gli immigrati “che fingono di scappare” dalle guerre (qualcun altro avrebbe detto, con altrettanta cristiana pietas, che fanno le crociere sul mediterraneo), delle femministe che reclamano attenzione sulla violenza dilagante nei confronti delle donne e sugli omosessuali, vera minaccia alla famiglia, cellula fondativa della comunità? Magari l’autore del libro, se si sta alla sua professione di modestia, voleva solo dire la sua, niente di più o di meno. Di sicuro, ha trovato un coro di commentatori che, nel difendere le sue tesi, o quanto meno il suo diritto di divulgarle, hanno, non troppo implicitamente, ratificato il sottotesto che le sorregge. Cioè un assunto che suona grossomodo così: che paese meraviglioso, prospero e ridente potrebbe essere l’Italia se solo si riuscisse una buona volta a relegare certe figure, veicolo di perniciose e disgregatrici anomalie, alla posizione socialmente più periferica e marginale possibile.

Altro aspetto di qualche interesse consiste nel fatto che i difensori del generale, più o meno all’unisono, affermano che egli è libero di dire quel che vuole, che nessuno può limitarlo. Tanto più perché quel che dice è condiviso dalla maggioranza dei suoi concittadini. Difficile stabilire se sia davvero la maggioranza, certo è una parte non trascurabile e questo va riconosciuto senza ipocrisia. Ma il problema sorge a partire dalla posizione che riveste colui che parla (o scrive). Un generale dell’Esercito italiano – un parlamentare, un magistrato, un docente, un dipendente della pubblica amministrazione – non può svolgere il proprio compito ispirandosi a principi etici opposti a quelli della Costituzione italiana. E poiché la Costituzione proclama solennemente la pari dignità e l’uguaglianza di tutti i cittadini e stigmatizza ogni possibile discriminazione, a nulla serve interrogarsi sulla libertà di opinioni. Una persona rivestita di funzioni pubbliche che esprima idee simili sta calpestando la Costituzione, ovvero il testo di legge fondamentale su cui riposa, tra le altre, anche l’autorità di cui è investita. Nessuno potrebbe impedire a chi lo voglia di coltivare privatamente idee di matrice razzista, sessista o omofoba e condividerle con la cerchia dei propri interlocutori. Ma, in sede legale, questo non sarebbe altrettanto lecito se tali idee fomentassero un dibattito pubblico indirizzato alla propaganda sessista, razzista o omofoba. Nel caso specifico di un soggetto titolare di una posizione negli apparati dello Stato, una condotta simile non appare solo un’offesa alle leggi antidiscriminatorie ma uno sbrego della sintassi costituzionale.

Pare che il soggetto propalatore delle tesi de quibus, abbia, come già alcuni suoi zelanti sodali, reclamato a propria difesa il diritto alla libertà d’opinione sancito dall’articolo 21 della Costituzione italiana. Pare che nel coro dei suoi sostenitori qualcuno abbia già paventato la possibile negazione di tale possibilità di espressione come una grave offesa. Anche qui nulla di nuovo se non il tradizionale rovesciamento di ruoli per cui chi offende e aggredisce si fa passare e viene fatto passare per un martire della libertà di pensiero. «Ce ne fossero, signora mia!, persone che parlano chiaro e che a questi degenerati e negr*i, che ci stanno rovinando, …ci dicono il fatto loro». Chissà in quante case piccolo-borghesi, avrebbe forse detto Pasolini, anche ricchissime ma pur sempre piccolo-borghesi, sarà stato pronunciato un commento di questo tenore. La circostanza curiosa è questa: c’è un signore che nega che la Costituzione dia il diritto a tutti, come singoli o nelle diverse formazioni sociali, di godere di diritti inviolabili (articolo 2) o che essa attribuisca a tutti i cittadini la medesima porzione di libertà e uguaglianza (articolo 3) e, però, questa stessa persona ritiene che la Costituzione le attribuisca il diritto di pensare, affermare, scrivere quel che vuole e tanta pazienza per chi ci resta male. Sarebbe il caso di chiedersi che Costituzione è quella che ha in mente chi ragiona così: una Costituzione “a corrente alternata”? Una Costituzione “a fisarmonica”? O, forse, chissà, una Costituzione che serve alle persone di sana e italicamente maschia costituzione e che ignora tutto il resto del mondo.

Ernesto De Cristofaro, Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Catania

 

CREDITI IMMAGINE Wikipedia | Hockler73

 



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