Genocidio di Srebrenica: fra memoria, negazionismo e manipolazione

L’imminente voto delle Nazione Unite per stabilire la data di commemorazione del genocidio di Srebrenica è più che simbolico: è un’occasione per la comunità internazionale di affrontare non solo i fantasmi delle atrocità del passato, ma anche lo spettro molto reale di un nuovo conflitto.

Sead Turcalo

Mentre le Nazioni Unite si preparano a votare per commemorare il genocidio di Srebrenica, il mondo si trova ancora una volta di fronte a un bivio di memoria e manipolazione. Non si tratta solo di una battaglia per segnare una data; è un confronto con le forze insidiose della negazione e della distorsione che minacciano di riscrivere la storia.
Allo stesso tempo i funzionari della Serbia e della Republika Srpska, entità bosniaca dominata dai serbi, declinano la risoluzione come un sinistro complotto, gli echi degli anni ’90 incombono, minacciando non solo i Balcani, ma anche i principi della giustizia e della pace internazionali. Di fronte a questa cartina tornasole, emerge la vera domanda: la comunità internazionale vacillerà di fronte al revisionismo o resterà ferma per onorare la verità e scoraggiare le oscure maree della destabilizzazione?
All’inizio di maggio l’Assemblea generale delle Nazioni Unite voterà una risoluzione per designare l’11 luglio come Giornata internazionale della memoria per il genocidio contro i musulmani bosniaci a Srebrenica. Non si tratta solo di un riconoscimento di una tragedia storica, ma di una presa di posizione contro la persistente negazione di quel genocidio, una tendenza diffusa in modo allarmante non solo all’interno della Serbia e dell’entità dominata dai serbo-bosniaci, la Republika Srpska, ma anche a livello regionale.
La resistenza a questa risoluzione da parte dei funzionari serbi e della Republika Srpska, che la bollano come una manovra orchestrata dai bosniaci in collusione con gli Stati occidentali “malvagi” come Germania, Stati Uniti, Francia e Paesi Bassi, riflette una profonda continuazione del conflitto con altri mezzi.
Non si tratta solo di opporsi a una risoluzione dell’Onu, ma di un tentativo strategico di rimodellare la narrazione storica e di deviare la responsabilità delle azioni passate. La battaglia non si combatte con bombe e proiettili, ma con ricordi e significati, con l’obiettivo di cancellare le responsabilità storiche e alterare la narrazione del passato. Questa lotta sulle narrazioni non è solo un conflitto sull’interpretazione della storia, ma simboleggia una battaglia strategica per disegnare il futuro.
Le obiezioni e le minacce alla pace da parte dei leader della Repubblica Srpska, comprese le minacce di secessione del presidente Milorad Dodik e la retorica altrettanto antagonista dei funzionari serbi e della Russia, riecheggiano i tumultuosi anni Novanta. Queste minacce richiedono una risposta internazionale forte, che si allontani dalle strategie di appeasement che hanno dominato gli approcci occidentali verso Belgrado e Banja Luka nell’ultimo decennio e mezzo. Nonostante le speranze che l’impegno potesse stabilizzare la regione e allontanare queste entità dalla sfera di influenza della Russia, si è verificato il contrario: l’influenza russa è cresciuta e l’entusiasmo per l’integrazione nell’Ue e nella Nato è diminuito.
Il panorama geopolitico è feroce e le lezioni della storia, come notò Winston Churchill, sono chiare: chi non impara dalla storia è destinato a ripeterla. La continua indulgenza internazionale verso la Republika Srpska e la leadership politica serba non ha favorito la stabilità, ma ha posto le basi per una potenziale devastazione regionale, con particolare impatto su Kosovo e Bosnia-Erzegovina. Ogni compromesso non è visto come un ponte verso la pace, ma come un segno di debolezza da sfruttare da parte di leader come Dodik, che non è un semplice nazionalista, ma un tattico che lotta per mantenere il potere in nonostante le sanzioni statunitensi che minacciano la sua rete economica e, per estensione, la sua sopravvivenza politica.
In questo contesto, i calcoli strategici devono guidare le politiche internazionali e quelle interne. L’appeasement è fallito; è necessaria una politica di deterrenza abbastanza forte da dissuadere le ambizioni secessioniste. Ciò significa rafforzare l’infrastruttura politica attraverso sanzioni economiche, rafforzare il numero di truppe e le capacità della missione Eufor e posizionare una brigata combinata della Nato in uno Stato membro della regione, come il Montenegro o la Macedonia del Nord. Questi passi non sono solo preventivi, ma necessari per garantire sicurezza e stabilità a lungo termine.
Inoltre, il rafforzamento delle forze armate della Bosnia-Erzegovina e la riaffermazione del suo percorso verso l’adesione alla Nato non sono opzionali, ma essenziali. Dato che una maggioranza significativa di bosniaci sostiene l’adesione alla NATO (69,1%), la direttiva strategica è chiara.
L’Occidente deve riconoscere che le dinamiche sul campo riflettono cambiamenti geopolitici più ampi, in particolare l’aggressione della Russia all’Ucraina e le sue implicazioni per la stabilità dei Balcani. Tattiche destabilizzanti simili potrebbero essere replicate nei Balcani se non contrastate da un’azione internazionale decisa e unitaria.
L’imminente voto delle Nazioni Unite è più che simbolico. È una cartina tornasole per la determinazione internazionale nell’affrontare non solo i fantasmi delle atrocità del passato, ma lo spettro molto reale di un nuovo conflitto. È ora che la comunità internazionale superi le soluzioni a breve termine e abbracci una strategia a lungo termine che dia priorità alla giustizia, alla verità storica e alla stabilità regionale.
CREDITI FOTO: ANSA / FEHIM DEMIR



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