La guerra per il nuovo ordine mondiale

Nella presente fase di riorganizzazione dell’ordine mondiale, iniziata con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin il 24 febbraio 2022, l’attuale conflitto “a pezzi” viene di volta in volta imputato a ragioni etiche, religiose o territoriali. Emiliano Brancaccio invece nel suo saggio di recente pubblicazione per Mimesis “Le condizioni economiche per la pace” porta alla luce come esso riveli fondamentali connessioni con il quadro generale di feroce lotta tra capitali che sempre di più imperversa nel mondo e si configuri come un susseguirsi di sommovimenti tellurici nel riassestarsi delle placche tettoniche della litosfera geopolitica.

Pierfranco Pellizzetti

Il potere corrompe, il potere assoluto
corrompe assolutamente”.[1]
John Dalberg Lord Acton
La libertà è sempre soltanto libertà
di chi la pensa diversamente […] e
perde la sua efficacia quando la
‘libertà’ diventa privilegio”.[2]
Rosa Luxemburg

Nuove tassonomie per anomale affinità interpretative
Nel bel mezzo della contrapposizione – vuoi guerra di religione e vuoi gradinata da stadio, resa vieppiù pittoresca dalle coreografiche processioni salmodianti dei pacifisti penitenziali a prescindere – in cui è sprofondato l’inconcludente dibattito pubblico dopo il 23 febbraio 2022 (data fatidica dell’avvio di quanto i putiniani definiscono pudicamente “operazione speciale” e i ferventi democratici atlantisti “proditoria invasione di uno Stato democratico”), irrompe la tesi di Emiliano Brancaccio, destinata a risultare urticante per entrambe le contrapposte tifoserie: “Capire che anche eventi bellici apparentemente ispirati da soli motivi etici, religiosi o banalmente territoriali, se esaminati in profondità rivelano fondamentali connessioni con il quadro generale di feroce lotta tra capitali che sempre di  più imperversa nel mondo” (E.B. pag. 9). Da qui la domanda inevasa del nostro autore durante il seminario Anpi del 14 luglio 2013: “Per quale ragione queste fondamentali basi materiali della guerra non sono ancora entrate nel discorso dei costruttori di pace?” (E.B. pag. 40).
Questione anticipata dal manifesto-appello redatto ancora da Brancaccio l’anno scorso e ripreso – tra febbraio e marzo 2023 – da numerose testate giornalistiche internazionali con il titolo, di chiare ascendenze keynesiane, Le condizioni economiche per la pace; reiterazione, questa dell’antico pamphlet datato 1919 – Le conseguenze economiche della pace – composto di getto, a pochi mesi dalla firma del Trattato di Versailles, dall’immortale autore della Teoria Generale (del resto, non ha forse Emiliano Brancaccio prefatto la riedizione 2017 presso l’editore il Saggiatore delle Esortazioni e profezie dello stesso John Maynard Keynes?).
Ciò premesso, confesso di aver letto il testo di Brancaccio in uno stato di particolare sintonia psico-culturale con l’autore, conseguente alla mia personale convinzione di una raramente esplicitata eppure consistente vicinanza/consanguineità tra la marxiana “critica dei rapporti di produzione” e la liberale “critica dei rapporti di dominio”. Ossia la riconducibilità delle categorie “sfruttamento per la riproduzione della ricchezza” e “prevaricazione attraverso il comando” a una comune matrice: il Potere, inteso come determinante che eviterebbe – non me ne voglia Brancaccio – l’eccessiva semplificazione economicistica (il capitalismo come strumento di dominio nella ripartizione del plusvalore, non il fine ultimo; se prendiamo le distanze dal Beruf weberiano). Insomma, il punto di partenza materialistico/realistico nell’analisi della comédie humaine, sia di interessi acquisitivi sia di pratiche impositive, e dalle loro correlazioni lungo il continuum comando/sottomissione. Quel potere che tanto il marxismo come il liberalismo (rettamente inteso) intendono mettere sotto controllo attraverso il conflitto; vuoi come antagonismo rivoluzionario per scalzare la classe dominante, vuoi per sottoporla a controllo attraverso il bilanciamento regolativo. Per cui, nella definizione delle famiglie intellettuali, il liberale John Maynard Keynes ha più motivi di vicinanza con Karl Marx o Paolo Sylos Labini di quanti se ne riscontrino – che ne so – in Friedrich Hayek o Franco Giavazzi e tutti i soci della milanese Adam Smith Society. Un po’ quello che diceva un collega di Brancaccio, l’economista fuori dal coro Giorgio Lunghini: “Le prospettive politiche di Marx e Keynes sono opposte, ma sono definite a partire da un’identica convinzione: che i mali del sistema capitalistico hanno origine dal fatto che la produzione non è più produzione d’uso, intesa alla soddisfazione dei bisogni, ma produzione per il profitto, è produzione di denaro a mezzo denaro”.[3]
Sicché – sulla base della succitata affinità tra paradigmi interpretativi delle dinamiche sociali e geopolitiche – sono pronto a condividere la tesi dell’insorgenza bellica nata dalla rottura di un equilibrio dominante in agonia e dalle conseguenti lotte tra controparti che intendono tutelare o promuovere assetti a loro favorevoli. Nel caso attuale, “la contesa sul nuovo ordine è dunque il motivo per cui, nell’attuale e incerta crisi della vecchia egemonia americana, i due blocchi in formazione, degli ‘amici’ e dei ‘nemici’, hanno cominciato a usare la forza delle armi per farsi largo ognuno a scapito dell’altro. Ogni occasione diventa utile per mettere alla prova l’ambizione dei capitalismi concorrenti”. (E.B. pag. 13). A parte le personali perplessità sull’uso del termine capitalismo, legato alla fase industrialista del Moderno (la riproduzione della ricchezza attraverso l’investimento) che dovremmo avere definitivamente alle spalle, per cui preferisco il termine plutocrazia (con David Harvey, la ricchezza accumulata attraverso esproprio),[4] non vedo particolari differenze tra l’interpretazione proposta dal saggio in esame e quanto io stesso avevo già pubblicato nello spazio on line che ora ci sta ospitando: “Ricorrendo ancora una volta all’indispensabile ermeneutica del sospetto, l’ipotesi esplicativa […] del vero – seppure non dichiarato – disegno retrostante la sedicente ‘operazione speciale’ in Ucraina; promossa da Putin anche per conto di chi resta dietro le quinte: la messa in discussione dell’egemonia americana e l’annuncio di un nuovo ordine planetario bipolare, che modifica drasticamente la geopolitica degli ultimi trent’anni”.
Siamo tutti un po’ braudeliani
In altre parole, l’attuale conflitto “a pezzi” – da Kiev a Taiwan, a Gaza – come susseguirsi di sommovimenti tellurici nel riassestarsi delle placche tettoniche della litosfera geopolitica.
Non mi pare dica qualcosa di sensibilmente diverso Brancaccio, quando scrive che “una volta comprese le vere cause della grande svolta americana, si può passare alla comprensione del dramma che ne consegue. Il punto è che un tale rovesciamento nell’ordine economico, da globalismo al protezionismo, non può avvenire in modo indolore” (E.B: pag. 13). Con ciò, andando a costruire un paradigma dell’ordine mondiale in divenire, di cui – dichiara sempre Brancaccio – è debitore per le intuizioni di maestri come Marcello De Cecco, Barry Eichengreen e Giovanni Arrighi.
Con tutto il rispetto per i primi due economisti (e il ricordo della simpatia di De Cecco buonanima), l’unica diletta guida indispensabile per accedere alle elaborazioni decisive nella teoria sistemica del mondo, nelle sue storiche successioni di centralità finanziarie – me lo consenta Brancaccio – è proprio Arrighi in quanto scientificamente attivo nel Fernand Braudel Center di New York, con il suo direttore Immanuel Wallerstein. Entrambi adepti della lezione di uno dei maggiori storici del Novecento, Fernand Braudel, cui siamo tutti debitori di due concetti illuminanti come storia di lunga durata ed economie-monde, sui quali gli allievi innesteranno il concetto di sistema-Mondo, concentrato sul secolare spostamento di centralità egemoniche. Ora siamo a quella di New York, che potrebbe essere l’ultimo “centro” nel mezzo millennio di questa storia capitalistica. Stanti tutte le personali perplessità verso il modello “successione di centralità sistemiche nel sistema-Mondo”, quale chiave interpretativa delle trasformazioni in corso; accertato il venir meno della grande placenta protettiva in cui giungeva a compimento, nelle fasi precedenti, l’incubazione delle egemonie statu nascenti: l’istituzione statuale. Ossia, insieme al mercato, il dispositivo socio-politico più usurato nella presente fase storica (e con ciò condividendo la tesi di Giovanni Arrighi che il paradigma vale per i tre modelli olandese, inglese e americano, mentre per la mia città – Genova – non si dovrebbe parlare di “egemonia” in quanto “più vicina al tipo di organizzazione finanziaria internazionale che si verifica nelle diaspore”[5] – vedi quella cinese odierna).
Intanto – come si diceva – tutto tace, nei dintorni del pensiero accreditato.
Eppure, in cotanto cortocircuito prospettico/progettuale, l’unico punto che parrebbe assolutamente fermo è la condizione terminale della fase storica in cui vegetiamo da tempo. E qui si aprirebbe subito un problema teorico preliminare, di non facile risoluzione: siamo all’esaurimento di un ciclo di accumulazione capitalistica o alla fine di quell’esperimento penta-secolare chiamato “Capitalismo”? Usando un termine retrò, ma meno inflazionato: Plutocrazia. Ossia, l’espansione della ricchezza sfruttando la rendita posizionale derivata dal controllo (taglieggiamento) dei varchi attraverso i quali transitano i flussi significativi: materiali delle merci, con la primazia nella creazione del valore acquisita dalla logistica, rispetto all’antica priorità della manifattura; immateriali del simbolico virtualizzato, nell’avvenuta cannibalizzazione dell’Economico da parte del Finanziario. Quell’assetto che si determina quando nella stanza sovrastante la sfera rumorosa del mercato, il possessore del denaro incontra il titolare della regolazione pubblica e si crea il miracolo del Big Business. Mentre si conferma – altresì – la collusione a livello parossistico tra comunità degli affari e corporazioni politiche, in atto fin dal tardo Novecento; quando sono stati azzerati i controlli/contrappesi del Potere, già a partire dal subentro “normalizzatore”, che si sostituisce alla classica e veneranda suddivisione triadica Esecutivo-Legislativo-Giudiziario: quella della trimurti combinatoria, a livello di comparaggio, Finanziaria-Mediatica-Governamentale.
Accantonando – per ora – queste melanconie e tornando al topic, converrebbe dare un nome e un cognome a ciò di cui si parla. Quindi, diciamolo apertamente: la fine del “secolo americano” novecentesco, dopo l’interminabile “autunno” quarantennale di finanziariazzazione globalizzata del sistema-Mondo (come ebbe a dire il maestro de Les Annales: “Tutte le principali espansioni commerciali dell’economia-mondo capitalistica hanno annunciato la loro ‘maturità’ raggiungendo lo stadio dell’espansione finanziaria”).[6] E i segnali vanno moltiplicandosi. Non ultima la scelta protezionistica americana dopo la crisi del 2008, che liquida definitivamente l’essenza stessa dell’egemonia a stelle-e-strisce, teorizzata la prima volta dal presidente Woodrow Wilson: la conquista del mondo con mezzi pacifici rappresentati dalle merci e la creazione di un immenso emporio per il consumo di massa. Con le parole dell’incrollabile idealista, “forti della convinzione che gli Americani siano chiamati a portare libertà, giustizia e umanità ovunque vadano, andate all’estero a vendere beni che giovino alla comodità e alla felicità degli altri popoli, convertendoli ai principi sui quali si fonda l’America”.[7] A cui i suoi attuali successori, in totale incomprensione dell’essenza stessa di un’egemonia secolare, rispondono innalzando muri, imponendo dazi punitivi e cancellando le ragioni stesse di un internazionalismo imperiale. E al riguardo conveniamo con Brancaccio: la responsabilità del passaggio dal globalismo al protezionismo USA va ripartito equamente tra Donald Trump, il suo predecessore Barack Obama e il suo successore Joe Biden.
Difatti, alla faccia del tanto sbandierato soft-power, la centralità di Washington ormai si puntella – come ci ripete Immanuel Wallerstein da oltre tre lustri – su un duplice asset a termine: “Il vantaggio monetario degli Stati Uniti – fare affidamento sull’uso del dollaro come valuta di riserva – sta venendo meno, e presto svanirà probabilmente del tutto. Il vantaggio americano nella sfera militare si traduce in uno svantaggio di lungo termine nella sfera economica, poiché dirotta capitali e innovazioni lontano dalle imprese produttive”.[8]
D’altro canto, nel ripiegamento da declino della nazione-guida dell’Occidente (e nella consunzione di assetti organizzativi, pratiche e linguaggi che ne avevano accompagnato l’ascesa, soprattutto precipitando nel buco nero in cui l’ha spinta la devastante avidità capitalistica/plutocratica dei suoi ultra-ricchi) non si intravvedono riassetti sistemici emergenti. Solo l’inquietante alternativa prefigurata da Arrighi nel suo viaggio a Pechino in compagnia di Adam Smith: “Prima che l’umanità soffochi (o si delizi) nella prigione (o nel paradiso) di un impero globale di marca occidentale o di una società del mercato globale gravitante attorno all’Oriente asiatico, potrebbe anche bruciare tra gli orrori (o le glorie) della crescente violenza che ha accompagnato il disfacimento dell’ordine della Guerra fredda”. La terribile prospettiva, inevitabilmente anomica, rappresentata da “un interminabile stato di caos a livello planetario”.
L’Armageddon incombente, che salda in un unico orrore avvelenamento dell’aria e dell’acqua, estinzione delle biodiversità, riscaldamenti climatici e raggiungimento dei limiti fisici dello sviluppo quantitativo, mixati con lo smantellamento di ogni struttura securitaria welfariana e la tirannia degli algoritmi con cui i signori del silicio (i GAFA: Google, Amazon, Facebook e Apple cui si aggiungono Microsoft e un paio di aziende controllate dal Partito Comunista cinese) stanno edificando una struttura di sorveglianza per la mercificazione delle biografie umane, più oppressiva del peggiore Panopticon da incubo. E nel frattempo si sta danzando in troppi sulla tolda del Titanic.
Alla fine del secolo americano
Di questo si dovrebbe discutere. Urgentemente e con forza. Per abbattere il muro del silenzio con cui l’élite del potere e i suoi uomini di mano circoscrivono qualunque voce contraria, quella chi osa denunciare la lubrica nudità del monarca ricchezza senza contrappesi. Appurato che “in assenza di ‘condizioni economiche per la pace’ le contraddizioni capitalistiche internazionali ci sospingono verso il buio di una guerra su larga scala” (E.B. pag. 48), l’epicentro dell’analisi è la crisi egemonica dell’economia statunitense e il suo sbilancio tra importazioni ed esportazioni che ha prodotto un default record di 18 mila miliardi di dollari, con il conseguente abbandono della linea liberoscambista-globalista e l’adozione della strategia protezionista, chiamata friend shoring, che divide il mondo in amici (occidentali e sodali) e nemici, in particolare Russia e Cina. E questi secondi non l’hanno presa troppo bene. Anche se lo stesso Brancaccio viene colto da qualche dubbio rispetto a tale analisi, che presupporrebbe un impero dell’Ovest morente: “L’idea di un ‘declino’ del capitalismo americano è stata avanzata tante volte da suscitare più di un dubbio sulla sua fondatezza” (E.B. pag. 21). Dubbi a cui Wolfgang Streek, presidente onorario del Max Plank Institute, aveva replicato in anticipo: “Il fatto che il capitalismo sia riuscito finora a sopravvivere a tutte le previsioni di morte imminente non significa necessariamente che sarà in grado di farlo per sempre”.[9] E poi aggiungeva: “Suggerisco di imparare a pensare alla fine del capitalismo senza assumersi la responsabilità di rispondere alla domanda su cosa mettere al suo posto. È un pregiudizio marxista”.[10] Magari sarebbe più utile aprire un cantiere sulle riflessioni lasciate aperte dal pamphlet: che cosa si intende per “nuovo ordine economico mondiale” e quali sarebbero i tratti distintivi dall’auspicato “capitalismo illuminato” in assenza del contrappeso di soggetti antagonistici, non nemici scesi in battaglia per imporre regole dello stesso gioco ma a proprio vantaggio.
In conclusione, si direbbe che quanto maggiormente amareggia il professor Brancaccio, impegnato a disvelare evidenze occultate nella svolta bellicista in corso, sia proprio il semplicismo (sospetto) dei “sedicenti esperti” (E.B. pag. 54) e il loro uso spregiudicato di tassonomie declinate nel luogo comune. Per cui, se vai nel salotto di Lilli Gruber su LA7 ti rifilano l’etichetta di “putiniano”; se promuovi un seminario presso l’Orientale di Napoli, c’è sempre il “frastornato” fan di un Putin “bolscevico” che ti accusa di portare acqua al mulino dell’imperialismo atlantico…
Ben arrivato nel club dei bastian contrari.

[1] John D. Acton, Il dovere della Libertà. Pensieri di un whig, Liberal Libri, Milano 2000;

[2] Rosa Luxemburg, “La rivoluzione russa”, in Scritti politici (a cura di Lelio Basso) Editori riuniti, Roma 1967 pag. 589;

[3] Giorgio Lunghini, L’Età dello spreco, Bollati Boringhieri, Torino 1995 pag. 49;

[4] David Harvey, Il mistero del capitale, Feltrinelli, Milano 2011;

[5] G. Arrighi, Capitalismo e (dis)ordine, Manifestolibri, Roma 2010 pag. 40

[6] Citato in Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo, il Saggiatore, Milano 1996 pag. 217;

[7] Citato in Victoria De Grazia, L’impero irresistibile, Einaudi, Torino 2006 pag. XIV;

[8] Immanuel Wallerstein, Il declino dell’America, Feltrinelli Milano 2004 pag. 252;

[9] Wolfgang Streeck, Come finirà il capitalismo?, Meltemi, Sesto S.G. 2021 pag. 14;

[10] Ivi, pag. 90;



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