Mappe del nuovo mondo: Dubravka Ugrešić e Dimitris Lyacos

In questa puntata di "Mappe del nuovo mondo": "Cultura karaoke" di Dubravka Ugrešić e "Poena Damni" di Dimitris Lyacos

Andrea Maffei

Dubravka Ugrešić, Cultura karaoke, trad. it di O. P. Arsic e S. Minettidi, nottetempo, 2011
Il genere letterario attualmente più in salute – già impiegato da autori quali, tra gli altri, Magris, Fo­ster Wallace, Yu Hua, Carrère, Oz, Ernaux, Le Clézio, Handke e Didion – è probabilmente l’ibrido fra narrazione per brevi e agevoli paragrafi, riflessione a tema vario e memoria autobiografica. Perché? Perché è quello più conforme alla realtà, segnatamente occidentale: stringato e mutevole (non noioso), ma soprattutto in prima persona, ché non è lecito diversamente guardare al reale, il quale ha perduto ogni pretesa o anche solo fantasia di unitarietà, di obiettività: esso muta da un individuo all’altro. Maestra del genere è stata la croata Dubravka Ugrešić (1949-2023), che attraverso opere come Cultura karaoke o Europa in seppia (edizioni nottetempo) si fa cronista delle grottesche contraddizioni d’un mondo deflagrato. L’autrice osserva – sbigottita – l’Europa tardo-capitalista, attraversata da sempre ricorrenti mode tec­nologiche, culturali, in una sorta di anestetizzato tramonto, di globalizzata, uniformata alienazione. Contemplando ad Amsterdam un chiosco kebab: Tutti – olandesi di pelle bianca, marocchini di car­nagione scura, surinamesi neri, cinesi gialli – qui indossano gli stessi abiti, il cui prezzo non supera i dieci euro, tutti hanno gli stessi gusti, tutti comprano gli stessi divani economici, gli stessi giocat­toli di plastica per i loro bambini, gli stessi televisori, tutti portano gli stessi orologi. È un senso di spaesamento, e Ugrešić pone a confronto la pur illusoria unità, il pur controverso ottimismo pro­gressista della Jugoslavia in cui è nata con l’indecifrabile presente. Citando Bauman (da Il disagio della postmodernità, per Laterza), se un tempo la società offriva ai suoi membri una vita sicura in cambio di parte della loro libertà, […] ora le scontentezze e le ansie tipiche del mondo postmoderno si annidano invece in una società che offre un’espansione della libertà personale in cambio di una diminuzione della sicurezza del destino individuale. Unica replica a questa inquietudine pare il ritor­no ai chiusi tribalismi, che con raccapriccio la scrittrice vede riaffermarsi ad esempio in una Croazia in vero intrinsecamente legata al clericofascismo ustascia (si prenda la commemorazione di Bleiburg, alla presenza delle più alte cariche pubbliche) e in modo ancor più chiaro al sanguinario nazionalismo degli anni Novanta (ancora adesso il premier è dell’Unione Democratica Croata, fondata da Tuđman). In un clima fortemente ostile e apertamente minaccioso, l’autrice ha dovuto emigrare, fino a stabilirsi in Olanda, dove è mancata l’anno scorso. Il popolo – che nei suoi vent’anni di sovranità statale ha abbattuto, demolito tremila monumenti alle vittime del fascismo, ha bruciato quasi tre milioni di libri e ha “ridotto” di metà la minoranza serba – scrive la propria storia, una storia di anime bianche e pure, persone laboriose e oneste che credono in un unico Dio. Moltissime, naturalmente, sono le affinità col caso italiano, ma non solo. “Come è accaduto?”, sembra chiedersi a ogni pagina, “E come abbiamo fatto a non accorgerci che succedeva?”. Meglio di tanti trattati di Storia, quando in futuro si vorrà capire “da dentro” questo inizio millennio, gioverà tornare a Dubravka Ugrešić.

Dimitris Lyacos, Poena Damni (contenente i tre volumi Z213: Exit, Con la gente del ponte, La prima morte), trad. it. di V. Sebastio, il Saggiatore, 2022
Che lo tematizzi o meno, tutto il postmoderno gravita attorno allo spettro della catastrofe. In alcuni casi – come per Ugrešić, o come in Solenoide di Cărtărescu – non è chiaro se essa sia ancora a ve­nire o già verificatasi. Spesso è passata: pensiamo a La strada di Cormac McCarthy, a Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood, e così è anche per Poena damni, del greco Dimitris Lyacos, che in ver­si e in prosa racconta le atonali peregrinazioni (non si sa verso dove) di un innominato Ulisse contemporaneo, attraverso paesaggi postatomici (che forse ricordano un po’ la descrizione della Zona che fornisce a un tratto Pynchon in L’arcobaleno della gravità), fra citazioni greco-antiche, bibliche, eliotiane, poundiane e altro ancora (il citazionismo è infatti rilevantissimo nella letteratura postmoderna). C’è chi si è riferito a Poena Damni come agli appunti schizzati appena risvegliandosi da un sogno; a noi ricorda quei filmati artistici che a volte si incontrano alle mostre, così bizzarri e indecifrabili che è difficile anche dire se siano “belli” o “brutti”: perché d’altronde non è questo il punto. È pensato come opera aperta, ancora in via di composizione (sembra sia già pronto un quarto volume) e polimorfa: integrata cioè da esibizioni di scultura, di pittura, da spettacoli di ballo, da musica e teatro. Il secondo volume è appunto una sorta di copione teatrale, il terzo è un canzoniere, mentre il primo una specie di cronaca onirica oscura (segnata anche, visivamente, dall’utilizzo di diversi caratteri tipografici). Certo è che, come scriveva su Il Mattino una vecchia conoscenza di MDNM, Giuseppe Montesano, Lyacos chiede una lettura che sia un’immersione totale in cui il lettore si faccia pienamente complice dello scrittore, chiede un lettore che legga e rilegga da complice ma anche da avversario […]. Siamo innanzi a uno di quei testi forse più per critici che per lettori: ma l’osservazione potrebbe essere mossa al postmodernismo tutto. Paradossalmente il tomo più “canonico” e facile da avvicinare (da cui partire?) sarà il terzo: un’atmosfera mirabilmente e preziosamente intessuta fra poesia greca classica ed Eliot. C’è un paragrafo, più o meno a due terzi del primo libro, che forse meglio di altri rappresenta la cifra dell’opera e che ci ha ricordato (per associazione spontanea, che pure ha un ruolo, nella letteratura odierna) il celebre aforisma kafkiano Una gabbia andò in cerca di un uccello. Scrive Lyacos: E quando non ricordi più, soltanto segni qua e là senza significato, e non riesci a metterli in ordine. Provaci comunque fintanto che il fuoco resiste. […] Guarda la tela, guarda come tutti i corridoi del labirinto conducono sempre allo stesso punto, che non coincide esattamente con l’uscita. Specie coi suoi presupposti formali, è un’opera che apre nuove strade. Se in futuro ignorate, essa resterà come un oggetto letterario misterioso. Se invece le si imboccasse davvero potrebbe scoprirsi pioniera.



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